Lo spirito del Grand Tour custodisce arte e memoria

La collezione di Saverio Di Giaimo propone le vestigia classiche con intelligenza moderna

Lo spirito del Grand Tour custodisce arte e memoria

A Castellabate, nell'ambito delle iniziative del Premio Pio Alferano, alla sua sorprendente decima edizione, sotto la presidenza di Santino Carta, una intelligente mostra racconta una esperienza unica, non dalla parte dei viaggiatori che ne sono stati protagonisti, ma dalla parte dei meridionali, in particolare napoletani, che ne sono stati testimoni increduli, prima sorpresi, poi compiaciuti: quella del Grand Tour in luoghi che furono per quasi due millenni pascoli per capre, per diventare poi siti eminenti della civiltà antica, dello spirito del mondo: la Magna Grecia, a partire dai viaggi di Winckelmann. Il cuore dell'Occidente.

Fra le tante tradizioni che la Storia ci ha lasciato in eredità, quella del Grand Tour è tra le più appassionanti, foriera di suggestioni, memorie, connessioni e rimandi. Appassionante, certamente, perché dice molto, anche all'uomo di oggi, di una civiltà, quella europea - sebbene certamente solo a livello di una élite colta, ricca, curiosa, cosmopolita, e non del largo popolo che certo non poteva permettersi alcun viaggio -, nella quale la ricerca e la scoperta del «bello», che tra XVII e XIX secolo si identificava con i sedimenti materiali e culturali della Storia e dell'Archeologia, erano la regola e il percorso naturale della crescita di una persona.

La scoperta, attraverso il viaggio, delle vestigia, dei cimeli, delle opere, delle architetture e anche dei paesaggi che un luogo unico al mondo com'era già l'Italia, anche prima che il Risorgimento prima, e l'Unità poi, lo identificassero come un'unica nazione, era in grado di fornire al viaggiatore in arrivo da tutta Europa era, di per se stessa, un'esperienza, anzi «l'esperienza» per antonomasia di una classe ricca, mediamente colta e preparata sulla storia e sui tesori che questa ha saputo o voluto conservare per tramandarli ai posteri. Ed era, questa, una scoperta da farsi con lentezza, passo dopo passo, con i propri occhi e con il proprio corpo: con la fatica, dunque, e con i molti fastidi del viaggio. Una fatica da superare e letteralmente da conquistare miglia dopo miglia, con le scomodità di spostamenti incerti e faticosi, quasi sempre da farsi in carrozza, attraverso stradine di montagna, percorrendo campi, laghi, fiumi, tra paesaggi, culture e popolazioni sconosciute; ma anche con la bellezza, l'eccitazione e l'intensità del viaggiare per proprio conto, da soli, quasi eroicamente alla scoperta di cose antiche mai viste prima, o viste solo in riproduzioni di vestigia, di reperti, di «cose antiche», per l'appunto, che permettevano al viaggiatore di ricollegarsi con i propri sensi e col proprio corpo alla grande Storia, a quella storia vissuta come eroica, favolosa, arcaica, «magistra vitae», come la volevano e la concepivano gli antichi.

Era dunque, quel viaggio, non solo la scoperta di luoghi e di reperti, ma anche scoperta di sé, del proprio animo, della propria storia intima, privata. Era scoperta e arricchimento personale. Potremmo dire che il Grand Tour non si limita all'esperienza privata dei tanti aristocratici e poeti che tra Sette e Ottocento varcarono le Alpi per giungere nel Bel Paese, ma sia anche, tutt'ora, quella che si suole chiamare una vera e propria «categoria dello spirito». Grand Tour è l'esperienza che ciascuno di noi fa quando decide di mettersi in marcia per scoprire qualcosa che non conosce, o conosce solo superficialmente, o per sentito dire. Ecco allora che il visitare una chiesa che non si conosce, o di cui, pur conoscendola, non si ricordavano, o mal si ricordavano, gli affreschi che ne decoravano l'abside, è già una parte importante e imprescindibile del proprio Grand Tour sentimentale.

Dal Grand Tour nasce, non per caso, il termine «turismo»: e se dietro il vociare, il caos, i ritardi, le code e le trappole del turismo moderno appare oggi difficile trovare la memoria di quel che un tempo era per l'appunto il viaggio per eccellenza, quello codificato e cantato da Goethe e da Stendhal, non per questo dobbiamo fare l'errore di pensare che non vi sia con esso una seppur lontana relazione. Viaggiare è, infatti, tutt'ora la quintessenza di ogni scoperta, interiore prima ancora che esteriore. Non è un caso neppure che io, dacché detengo quella che Sartre chiamava «l'età di ragione», non faccia che viaggiare. La mia vita è un inesausto Grand Tour tra le meraviglie e i tesori d'Italia. Passo il tempo viaggiando, spostandomi, correndo su e giù, in un inesausto passare da una mostra all'altra, da una chiesa all'altra, da una collezione dove so nascondersi un capolavoro a un'altra collezione dove un capolavoro è forse in agguato, maturo per essere rivelato a me, e di conseguenza al mondo, poiché il viaggio è sempre conoscenza, è vita, è scoperta, è rivelazione, conferma di una cultura già sedimentata ma anche appiglio per stimoli nuovi, per nuove scoperte, nuove epifanie.

Il Sud Italia - questo scrigno di tesori e di bellezze che è la nostra meravigliosa Magna Grecia -, è un tassello irrinunciabile del Grand Tour, non solo antico, ma contemporaneo. Scendere al Sud è spesso un'esperienza che ha a che spartire con la scoperta di parti dimenticate o mai approfondite della propria Storia. La zona intorno a Napoli, poi, con la sua corona di siti archeologici e di reperti conservati dall'eruzione del Vesuvio, è - come già tutta la Sicilia -, un pezzo irrinunciabile del Grand Tour. Viaggiare e collezionare sono due facce della stessa medaglia. Non si colleziona, o meglio si colleziona con minore facilità e altrettanta minore consapevolezza e intensità, stando seduti sul divano o nella propria camera da letto. Non si compra in televisione, salvo rari ed episodici esempi. Scegliere, comprare, acquisire per passione, per la gioia intima e profonda del costruire, passo dopo passo, la propria collezione - che è immagine e specchio di sé -, è un atto che ha a che fare sempre col viaggiare. Non si può comprare se non si è prima stati a visitare: luoghi, musei, siti archeologici, palazzi, mostre.

Particolarmente singolare, allora, è la condizione di chi, come Saverio Di Giaimo, ha concepito l'esperienza del collezionare e la memoria del viaggio, e dei viaggi, fatti - il suo immaginario Grand Tour nella Storia, nei reperti e nelle vestigia del nostro passato -, in un'unica soluzione, la sola possibile, forse, ai suoi occhi: riunendo in un solo luogo (la sua collezione appunto, luogo fisico ma anche principalmente mentale, come sono tutte le raccolte) le memorie, di altissima e raffinatissima qualità, che la classicità ci ha lasciato. Partendo dalla sua città, Napoli, e dalle vestigia che questa, e le zone limitrofe, con la scoperta settecentesca di Pompei e di Ercolano, ha lasciato in eredità ai posteri non solo come giacimenti e reperti materiali - le meravigliose case, i muri affrescati, i crateri, i vasi, le suppellettili di cui la zona pullula -, ma anche come repertorio iconografico radicato, ancora oggi, nel vivo dell'immaginario popolare, per riscoprire, come fece Aby Warburg con il suo fondamentale Mnemosyne. L'Atlante della Memoria, le «correnti energetiche», profonde e sotterranee, che ci sono state tramandate nel corso dei secoli, è stata la sfida che Saverio Di Giaimo ha voluto affrontare con la sua straordinaria collezione.

Collezione di memorie, di repertori e anche di fantasmi della classicità, potremmo dire: di una classicità rivisitata (quasi si assistesse a una reinterpretazione di taglio postmoderno, ma in anticipo di qualche secolo rispetto al nostro tempo, nel quale la copia, la citazione, il rifacimento e la ripresa dei canoni sono moneta corrente, ma spesso sotto l'egida dell'ironia e della banalizzazione), attraverso il rifacimento puntuale e letterale - comprensivo degli accidenti e delle corrosioni che il tempo ha via via portato con sé - di reperti, statue, arredi, mobili, gessi, vasellame, centrotavola e altri oggetti provenienti dal vasto corpus di reperti scoperti nella zona; rifacimenti non di oggi, ma realizzati tutti tra la fine del Settecento e l'inizio del Novecento, da quella straordinaria e raffinatissima macchina di riproduzioni puntuali, maniacalmente veritiere nella loro raffinatezza e precisione, che

sono state le officine manifatturiere della zona, a cominciare da Capodimonte.

Qui inizia la consapevolezza della nostra civiltà, e delle sue origini nella Magna Grecia, non 2500 anni, ma 250 anni fa. Prima non esistevamo.

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