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Peppìn Meazza era il fòlber

Se n’è andato in silenzio, vergognoso di morire. Con lui il calcio uscì dalla rozzezza provinciale per diventare fenomeno mondiale

Finale dei Mondiali del 1938, Giuseppe Meazza stringe la mano al capitano dell'Ungeria, Gyorgy Sarosi
Finale dei Mondiali del 1938, Giuseppe Meazza stringe la mano al capitano dell'Ungeria, Gyorgy Sarosi

Peppino Meazza morì il 21 agosto del ’79 e Gianni Bre­ra scrisse come soltanto lui sapeva. Il pezzo del Maestro arrivò in redazione corredato, di sommario e titolo. Passammo il testo, quasi leggendo il vangelo secondo Gioan, toccò a Leopoldo Sofisti, caporedattore centrale de Il Giornale Nuovo, riferire il tutto a Montanelli. Saranno state le nove, forse le dieci di sera, il Vecchio stava a Cortina, per la sua vacanza estiva, Sofisti con voce mormorata e preoccupata gli riferì il titolo e il sommario, quel “folber” e poi “la verduratta”, per fortuna non disse di “entozoo” o di “cippirimerlo”. Il Direttore mugugnò, lassù sulle montagne: lui toscano di Fucecchio cercava di ingoiare e poi digerire “el folber” e “la verduratta”.Ma poichè si trattava dell’esordio di Brera sul Giornale, Montanelli scrisse qualche riga di accompagnamento: "Di un Meazza, che è stato un Brera del calcio, solo un Meazza del giornalismo come Brera poteva parlare". E comunque, disse il Direttore, "... non gli metteremo la mordacchia...", tanto per risciacquare in Arno e vendicarsi con il padano. TD

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È morto Peppìn Meazza. Se n'è andato in silenzio, vergognoso di morire come si dice dei gatti, alla cui specie sorniona apparteneva. Chiunque, ragazzino, abbia pedatato negli anni Trenta, almeno per un istante, un'ora, un anno ha provato a mitizzare se stesso nel suo nome. Perché Peppìn Meazza è il football, anzi «el folber» per tutti gli italiani. Grandi giocatori esistevano al mondo, magari più tosti e continui di lui, però non pareva a noi che si potesse andar oltre le sue invenzioni improvvise, gli scatti geniali, i dribbling perentori e tuttavia mai irridenti, le fughe solitarie verso la sua smarrita vittima di sempre, il portiere avversario.

Era nato nel 1910, di fine agosto, a Porta Vittoria, non so in quale via. Sua madre aveva nome Ersilia e veniva da Mediglia, nella Bassa di Lodi. Faceva la verduratta che era allora povero mestiere: lo chiamava «Peppino », secondo l'italiano storpiato dai lombardi: e tutti gli altri, Peppìn, e magari anche «Pepp», che è tanto bello e veloce, ma screditato ormai dalle pochades d'osteria. Porta Vittoria non finiva già al monumento delle Cinque Giornate, proseguiva per la campagna ricca di fossi e di fontanili. Quando si preparava il cantiere per una casa nuova, si faceva sgombro uno spiazzo e in quello giocavano al folber i fiolett della zona. Peppìn ha dato subito la misura del suo carattere e del suo stile pretendendosi centromediano, che nel beato calcio di quei giorni era padrone e donno del gioco.

Peppìn ragazzetto era gracile e denutrito. Aveva le spallucce cadenti e le ginocchia vaccine. Sottoposto a visita scolastica, è stato trovato debole di polmoni e accolto al Trotter, che era ed è l'avveniristica scuola all’aperto dei milanesi. Egli era dunque un esempio del nostro entozoo disastrato e tuttavia gagliardo, con dentro tanto nerbo da strabiliare chiunque lo sottovaluti. Quando lo presero all'Inter, si invitarono i soci a ospitarlo il più frequentemente possibile per la bistecca, della quale in casa non aveva abbondanza, a diciassette anni appena compiuti, era già tanto bravo che venne retrocesso Bernardini a centrocampo, così che era l'asso patentato (o molto pagato) a dover servire il pivello più dotato di genio.

Fu lui a sollevare il nostro calcio su effettivi livelli europei: lui a trasformarsi in regista inventore di gioco per dare prima la Coppa Internazionale e poi il campionato del mondo all'Italia. Dalla generosa e gnocca Milano veniva considerato alla stregua di un prodigioso Kean vernacolo. Lucido di brillantina, gli occhi assonnati, il sorriso bullo, l'automobile (che ben pochi avevano), i quattrini facili, i balli, il gioco, le veglie presso le Maisons Tellier di mezzo mondo, il trionfante Peppìn vendicava le angustie degli umili antenati e di tutti noi poveracci suoi pari, passando per un genio al quale era consentita qualsiasi stravaganza.

In realtà, giocava d'impegno ­ per l'Inter ­ soltanto se qualcuno gli mostrava a tempo giusto l'orecchio di una banconota. Si alzava dal letto quando gli altri avevano già finito di allenarsi. Faceva il gol come e quando voleva, ma solo se capiva di essere in debito, anzi in colpa con i tifosi. Era in effetti l'unico italiano a reggere il confronto con i sensazionali prestipedatori argentini e brasiliani. «Grand peintre du football» lo definirono i francesi (pensa l'ingegno) quando lo videro trionfare ai mondiali di casa loro (1938).

Non è vero però, come asseriscono alcuni, che fosse tanto modesto e schivo. Pensava a sé come ad un eroe mitico, a un irripetibile e grande inventore di calcio ad alto livello. Parlava di sé con l'ingenua vibrazione dell'egoista troppo tempo osannato per non ritenersi alla lunga l'unico. Quasi tutti gli ex campioni soffrono di queste ubbie e neanche lui, povero Peppìn, poteva dirsene immune. Troppi, tuttavia, ne sottovalutavano l'intelligenza: parlava italiano a orecchio, e quindi non poteva esprimere in lingua l'arguzia che per solito lo animava parlando milanese. Certo, non era un sapiens, e la informe cultura gli impediva di figurare tra i tecnici del suo sport. Ormai avanti con gli anni, venne rilanciato come uomo simbolo per gli Inter club. Sbatteva le palpebre, sentendosi acclamare, e con un sorriso triste annuiva, assai poco convinto in cuor suo che quella vita meschina meritasse più di venire vissuta. Infatti, senza darlo troppo a vedere, si è dignitosamente levato di mezzo.

E avendo io a lungo delirato per lui, mi dico oggi che gli eroi, quelli veri, andrebbero per tempo rapiti in cielo, così come usava una volta, che non debbano restare fra noi a morire accorati e offesi della loro ingiustissima sorte.

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