Carlo Ancelotti è stato di parola. Aveva promesso che ai primi di dicembre sarebbe arrivato a Milano e ha onorato l'impegno preso. Ha fatto il nonno e il papà quasi a tempo pieno ritagliandosi qualche ora da dedicare alle telecamere di Rai 1 e Mediaset premium. È già pronto a ripartire per volare alla cerimonia del Pallone d'oro prima del ritorno a Vancouver che è diventata la sua residenza. «Ho sedotto i canadesi con i miei tortelloni burro e salvia» ama spiegare a chi gli chiede come possa resistere alle temperature polari del Canada senza avvertire la nostalgia canaglia delle sue radici. Agli amici e al grande pubblico della tv, ha spiegato in modo trasparente i piani per il suo futuro, sciogliendo equivoci e dubbi, facendo anche giustizia di qualche dichiarazione non autorizzata.
Ancelotti è uomo di calcio. Il suo mestiere, che è poi la sua grande passione, è allenare ogni giorno, condizione che solo un club può garantirgli. Nel calcio di casa nostra, i suoi due punti cardinali sono sempre stati e rimangono «Roma e Milan», le squadre nelle quali ha diviso la carriera da calciatore e lasciato in eredità vincoli affettivi. È facile allora decifrare il suo retro-pensiero: alla Roma c'è Eusebio Di Francesco che ha rilanciato la squadra vincendo pregiudizi e scetticismo, l'unica opzione praticabile può essere dunque solo il Milan sempre che il club riesca a spazzare via dubbi e perplessità sulla solidità dell'azionista.
Intendiamoci bene, però: il calcio italiano non è la prima scelta di Carlo Ancelotti che ha lasciato il cuore a Londra e non ha mai smesso di rimpiangere il clima della Premier league oltre che degli stadi inglesi, «dove puoi arrivare davanti allo stadio e passare tra i tifosi rivali senza nessun timore». Per capirci: se dall'Inghilterra non dovessero arrivare telefonate interessanti, allora si aprirebbero gli scenari italiani. Che devono tener conto anche dell'unanime designazione per la panchina della Nazionale. La battuta («sono ancora molto giovane per quell'incarico») riferita in questi giorni è un modo, elegante, per rompere l'assedio al quale è stato sottoposto dopo l'esonero di Ventura. Ancelotti ha detto no a chi gli chiedeva di prendere il primo aereo per Roma e accettare l'offerta del presidente federale ma non ha mai detto no al club Italia. «Non ho niente contro Tavecchio», ha ripetuto in tv. Pur tuttavia Carlo è abbastanza navigato per sapere che, accettando quell'incarico al volo, si sarebbe infilato in un vicolo cieco. La sua disponibilità per la Nazionale resta una parentesi aperta a condizione che nel frattempo, da qui a giugno prossimo, si raggiungano le condizioni minime per accettarla: governance nuova e autorevole, riforme, mandato con la piena autonomia.
A Gattuso ha dedicato un paio di telefonate d'incoraggiamento e qualche frase: «Rino ha diretto solo due allenamenti e sappiamo tutti cosa è successo a Benevento, deve avere il tempo necessario per migliorare la squadra».
Assolto alla fine anche Montella: «Il Milan ha investito molto e non è sempre facile trovare subito la soluzione». Nessun mistero infine sulla fine del rapporto col Bayern: «La sconfitta di Parigi ha fatto traboccare il vaso, non c'era più sintonia sui miei metodi d'allenamento».
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