C' è un diritto che va in gol. Le donne del pallone se lo sono meritate: hanno giocato su tutti i fronti e qualche volta hanno spiegato ai maschietti come ci si comporta. Loro, le donne, professioniste più degli uomini pur non avendone lo status. Il calcio non è femmina, forse l'attrazione del gioco è ancora a vocazione maschile, c'è serie A e serie A d'accordo, ma le ragazze hanno fatto strada, dimostrato (non doveva essercene bisogno) la legittimità alla parità di genere pure nelle tutele. Il piano di sviluppo quinquennale femminile prevedeva l'introduzione al professionismo della serie A e la sua sostenibilità. Fortunatamente non è finito nel cestino. La Federcalcio ha mantenuto le promesse, le premesse e messo il calcio rosa al passo con il resto del mondo dove il professionismo ha già preso il largo. Magari con sfumature diverse, ma non è più conquista: diciamo sport non solo calcio. In Italia, invece, la Federazione si è presa il giustificato vanto di essere la prima ad introdurre la novità: siamo un po' indietro. Finalmente non si pensa più, e solo, alle ragioni economiche ma anche ai diritti. Poi, certo, il calcio maschio della lega di serie A anche stavolta non ha voluto far mancare la brutta figura: prima ha votato contro, poi ci ha ripensato. Si è parlato di malinteso. È invidiabile la fantasia della lega di A capace di dipingere sempre la peggior cartolina dello sport nostro. Non c'è salvezza. Non è da oggi che lo sport femminile in Italia sia costretto ad abbattere barriere, pregiudizi e tanto altro. Ma è vero che le donne, negli ultimi anni, si sono conquistate posizioni e rispetto con i risultati sul campo. Non è un caso che in taluni settori tirino il gruppo: ultimamente si è visto nel ciclismo.
Non è un caso che le azzurre siano rimaste uniche con la chance di partecipare ai mondiali. Non è casuale che il calcio rosa nel mondo vada in campo per riscattare condizioni inumane in taluni Paesi. Ecco, appunto, il professionismo è solo un passo. Definiamolo un sorriso di donna.
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