«Uomini di poca fede». Il dolce rimprovero di Carlo Ancelotti ai cronisti tv in attesa, incassata la quinta finale di Champions della sua immensa carriera di allenatore, è un accento quasi poetico in una serata leggendaria che solo il Real Madrid, il Santiago Bernabeu e sua maestà Carlo V Ancelotti sono capaci di allestire. Per il diretto interessato trattasi di una «scintilla che ha acceso la magia dello stadio», per qualche altro, Fabio Capello ad esempio «è un colpo di fortuna», per Max Allegri è l'occasione per una stilettata a Guardiola e un omaggio al capo-scuola, «le mode finiscono, il classico, come Ancelotti, rimane». E allora bisogna riannodare il filo di una notte memorabile per recuperare soprattutto le istantanee che rimarranno scolpite nella memoria collettiva. Gli ultimi eroi della casa blanca hanno reso omaggio anche all'altro italiano decisivo (il preparatore Pintus, un anno fa all'Inter con Conte, ndr) per non interrompere quell'abbraccio tenerissimo tra padre e figlio, tra Carlo e Davide, il suo secondo, che racconta molto più di un traguardo così prestigioso tagliato. Perché riporta a galla i veleni sparsi ai tempi di Napoli, quando gli diedero (su input societari) e gli scrissero di tutto: che Ancelotti «era ormai bollito» e che «faceva allenare il figlio».
«Ai miei calciatori voglio un bene dell'anima»: in questa frase la sconfitta solenne per il calcio dei super-ricchi, degli sceicchi, ricacciati indietro uno dopo l'altro, prima il Psg e adesso il City, c'è tutta la fragranza dell'uomo Ancelotti, la sua qualità migliore, il talento unico e irraggiungibile di stabilire una sintonia speciale con i suoi calciatori. Avvenne così al Milan, poi al Chelsea, poi al Real, ancora al Psg in una sequenza che è un romanzo popolare di un uomo venuto dall'umile terra del reggiano. Jorge Valdano, che è un cantore straordinario delle imprese del Real, ne ha dato una definizione letteraria: «Carlo ha conservato il suo originale spirito rurale». Lo spiega un vecchio proverbio: il contadino scarpe grosse e cervello fino. Non bisogna meravigliarsi allora se per preparare la semifinale di ritorno della Champions league con il City, Ancelotti ha fatto rivedere ai suoi tutte le rimonte precedenti effettuate per indicare la strada, il sentiero stretto e complicato attraverso il quale passare per spiccare il volo verso Parigi, diciassettesima finale per il Real (a Madrid toccano ferro). Solo chi lo conosce bene, come i cronisti che l'hanno scortato per 8 anni a Milanello, o Arrigo Sacchi («non fa niente di straordinario, è lui straordinario») che l'ha avuto prima calciatore e poi assistente al mondiale '94, possono cogliere la gigantesca sagoma uscita da questa stagione nella quale Ancelotti sembrava la carta di riserva pescata da Perez dopo la rinuncia di Allegri e il no del Psg alla cessione di Mbappè. Non avevano fatto i conti con il patrimonio di sentimenti che può spingere una squadra oltre i propri limiti, anagrafici e calcistici.
Alla fine della notte magica, tornando a casa, Carlo si è imbattuto in un messaggio che probabilmente gli ha dato conto dell'impresa. «Hai ragione» ha risposto a chi gli aveva scritto semplicemente «non è Ancelotti goloso di coppa, è la Champions che si è innamorata di Ancelotti».
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