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Il primo oro è di quei ragazzi che non volevano remare soli

Gli azzurri del 4 di coppia in finale con la dedica a Filippo, il compagno portato via dal cancro, scritta sul suo posto

Il primo oro è di quei ragazzi che non volevano remare soli

Dicono che chi sa condividere il silenzio sa anche condividere l'amore. Deve essere iniziata proprio così la giornata degli atleti italiani alle Olimpiadi di Tokyo che ha ridato un senso a tante cose che nello sport sembravano vendute: solidarietà, sobrietà, braccia spalancate per vivere, giocare, magari lottare, tutti insieme.

Per le ragazze e i ragazzi vestiti di bianco nella divisa olimpica italiana quel viaggio dietro la bandiera portata dalla Rossi e da Viviani dentro lo stadio deve essere stato toccante, come quasi tutta la cerimonia d'apertura, sobria, elegante, vera, quel messaggio che arrivava dalla baia, nell'isola artificiale dove cominciava il viaggio della nostra squadra di canottaggio. Dalla foresta d'acqua dove il quattro di coppia si è guadagnato la finale di martedì, tornando dopo 13 anni nell'acqua dove, oltre alle pericolose ostriche, ad avversari difficili come Olanda e Polonia, potrebbero anche trovare il podio, sarebbe il 39° nel regno del canottaggio, dove abbiamo vinto 10 ori in uno sport dove si fatica e si combatte dalla prima edizione nel 1896.

In quella foresta d'acqua, nella batteria lasciata per centesimi ai polacchi dopo una gara di testa, c'era la barca italiana che aveva quattro leoni ai remi, ma che sentiva di avere a bordo anche il compagno perduto tragicamente il 29 aprile. Lo hanno voluto loro, chiedendo al CIO, sempre un po' rigido, di poter far salire anche Filippo Mondelli, il ventisettenne finanziere di Como oro nel 2018, bronzo l'anno dopo nella prova che qualificò questo armo per i Giochi che la pandemia ha poi imprigionato, rimandandoli a questa estate per una sfida che temevamo non si potesse fare neppure dopo un anno di attesa. Mesi di battaglie contro il nemico invisibile che si trasforma, ma che forse, questo tribolato mondo olimpico, riuscirà almeno a combattere nei giardini del silenzio.

Un bel quartetto, esperienza e gioventù, fisici scolpiti dalla fatica, dal lavoro, colossi, il più piccolo e anche il più giovane, il lecchese Panizza, è alto 1 metro e 87. Hanno remato bene, lasciato il primo posto ai polacchi per 3 centesimi nella seconda batteria, ma nessuno di loro ha vogato da solo. Sul sedile della barca c'era anche lui, il Filippo rubato alla vita così presto. Era scritto, era nel loro cuore. Il capovoga Gentili, cremonese di ventiquattro anni ha scandito il ritmo della gara dandosi la voce con il prodiere Simone Venier, un colosso di Latina, il più anziano, l'unico che c'era sulla barca d'argento a Pechino nel 2008, dando il ritmo al ferrarese Luca Rambaldi in posto due e al Panizzi che nel posto tre guardava oltre la linea del traguardo.

Martedì li aspetteremo sul pontile sperando che tutto vada bene, ma intanto il primo oro vero di questi Giochi va sicuramente a questi ragazzi che non volevano remare da soli in quell'isola artificiale, compagni per sempre del Mondelli che se ne era andato dopo aver combattuto tanto contro una malattia terribile delle ossa.

Con questo quinto uomo idealmente a bordo non hanno voluto barare, ma soltanto rispondere al loro cuore e speriamo che questo possa ispirare la nostra spedizione record, i ragazzi che abbiamo visto danzare, scherzare, inseguire le colombe di carta nello stadio olimpico durante la cerimonia d'apertura.

Il messaggio è per tutti. Come del resto vogliono essere queste Olimpiadi che devono essere di comunità, non importa se chi ha voluto aggiungere al Citius, Fortius, Altius originali qualcosa che assomiglia al latino. Una sfida che sembra difficile vincere anche adesso nella bolla a cinque cerchi, dove ogni giorno qualcuno finisce in quarantena, ma dobbiamo ammettere che nei momenti di vera emozione della cerimonia inaugurale, non riuscivamo a trovare un messaggio più autentico, forte, come quello del nostro armo su quella via d'acqua inventata. Ci auguriamo che vincano, o che, almeno, vadano sul podio, per noi sono il simbolo di qualcosa che va oltre e che dovrebbe ispirare la nostra squadra. Un gesto semplice, un abbraccio che dovrebbe aiutare a cambiare il modo di pensare fra quelli che hanno voluto comunque olimpiadi nel mese più caldo di Tokyo, fra gente che ancora non ha capito che l'isola degli sportivi non sarà mai un prodotto artificiale soltanto da vendere.

Certo del canottaggio, come di tanti altri sport che i beceri chiamo minori, lo hanno detto persino dell'atletica accidenti, ci si occupa seriamente soltanto quando arriva l'Olimpiade, ma da Tokyo quei quattro rematori ci hanno mandato un messaggio: siamo una grande famiglia e onoriamo i nostri campioni come abbiamo fatto ai tempi degli Abbagnale del professor La Mura, nelle giornate del silenzio per tante ore di allenamento, sapendo che soltanto all'Olimpiade ci sarebbero stati i riflettori spesso negati anche per un mondiale, figurarsi un campionato europeo.

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