Il ragazzo che dribblava la sfortuna

Il ragazzo che dribblava la sfortuna

«Una vita sfortunata che si è accanita con chi tanto aveva già sofferto. Ma lui è sempre rimasto un ragazzo dolcissimo di carattere, un velo di tristezza sul viso, ma sempre disponibile con i compagni, incredibilmente sereno per essere un giovane che aveva dovuto subire tutte quelle disgrazie. Quando si dice che tutti gli volevano bene non è retorica». Mino Favini è il responsabile del settore giovanile dell’Atalanta. È lui che ha avviato al calcio Piermario Morosini, bergamasco classe 1986 che ha giocato dieci anni in maglia nerazzurra (vincendo anche uno scudetto Allievi) prima di passare nel 2005 all’Udinese, a 19 anni, e affacciarsi al professionismo e alla serie A. Da lì una serie di città e di squadre diverse: Bologna, Vicenza, Reggina, Padova, ancora Udine, di nuovo Vicenza e infine Livorno, oltre a un certo numero di presenze (56) in maglia azzurra nelle varie «under».
«Un grande giocatore e un grande ragazzo», si commuove Domenico Criscito, il terzino che gioca in Russia e che con Piermario ha condiviso tante volte la stanza nei raduni della nazionale. «Un ragazzo splendido», lo ricorda l’interista Andrea Ranocchia, un altro suo compagno in azzurro. Memorie-fotocopia dei tanti che con Morosini hanno giocato condividendo fatica, speranze, divertimento, odore di spogliatoio e i silenzi di quel ragazzo educato dalla faccia triste. «Pensavo che la vita avesse infierito in maniera sufficiente su Piermario, evidentemente c’è stato un accanimento», la triste considerazione di Serse Cosmi, l’allenatore che lo lanciò in serie A, esordio il 23 ottobre del 2005 contro l’Inter. «La vita lo aveva messo davanti a cose più grandi di lui, forse anche per questo era un giocatore e un ragazzo di una semplicità e di una maturità assolute».
Cose grandi e dolorose. Ultimo di tre fratelli, prima perde la mamma Camilla quando aveva 15 anni, poi il padre Aldo a 17. Malattie. Lo aiutava la zia Miranda, ma le tragedie non erano finite perché arrivò anche il suicidio del fratello disabile quando Piermario era già passato all’Udinese. Gli era rimasta la sorella maggiore, anche lei con handicap. «Sono cose che ti segnano e ti cambiano la vita - disse Piermario in un’intervista al Guerin Sportivo nel 2005 -, ma che allo stesso tempo ti mettono in corpo tanta rabbia e ti aiutano a dare sempre tutto per realizzare quello che era un sogno anche dei miei genitori. Vorrei diventare un buon calciatore soprattutto per loro, perché so quanto li farebbe felici. Per questo so di avere degli stimoli in più».
Stimoli e passioni: il pallone, certo, ma anche la musica, il rock (e il libro) di Ligabue, i cani, l’amicizia.

Emozioni raccontate su Twitter, dove postava le foto dei suoi viaggi con Annina, la fidanzata che ha visto il suo amore dal volto velatamente triste e di una dolcezza incredibile morire, a 25 anni, su un campo di calcio a Pescara.

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