Ci sono storie che nascono già finite: succede in amore ma anche nel lavoro, e i motivi sono più o meno gli stessi. Perché si è finiti insieme per necessità e senza vera passione, perché si era attratti da un particolare dell'altro ma è chiaro da subito che alcune differenze sono inconciliabili, o magari perché il confronto con chi c'era prima è semplicemente impietoso. Nel calcio questi matrimoni sbagliati riguardano spesso gli allenatori, e un motivo c'è: se il calciatore deve soprattutto giocare, il mister non deve solo dirigere gli allenamenti e fare la formazione. Deve anche ispirare fiducia, deve fare in modo che tutti credano nelle sue idee e per questo deve essere almeno stimato, se non proprio amato.
Frank De Boer, nonostante il brodino caldo bevuto mercoledì sera, al momento non possiede questi requisiti. In compenso però rientra nella casistica di cui sopra: è finito all'Inter per necessità, perché serviva uno da mettere al posto di Mancini e serviva in fretta, e pazienza se non tutte le componenti della (nuova) società erano convintissime; poi è erede di una tradizione calcistica che ci ha sempre affascinati ma che tradizionalmente in Italia ha avuto poco successo, e infine deve fare i conti con una piazza che a sei anni di distanza è ancora vedova di Mourinho e non sa innamorarsi di nessun altro. Lo stesso Mancini, che pure nella storia interista qualcosa conta, è stato vissuto come una minestra riscaldata.
Per tutti questi motivi il povero De Boer, dal giorno uno della sua avventura nerazzurra, è sempre stato un walking dead. Un morto, calcisticamente parlando, che cammina. Uno col destino segnato. Uno di quegli allenatori che, quando arrivano a Milano, la gente si chiede se riusciranno a mangiare il famoso panettone. Se vogliamo restare agli anni recenti dell'Inter, quelli del dopo Mou, l'impresa non è riuscita a Benitez - che da buona forchetta si sarà dispiaciuto doppiamente - e a Gasperini, mentre Stramaccioni e il Mazzarri del primo anno ce l'hanno fatta con un po' di fatica. Però De Boer e il suo spaesamento fanno venire in mente altri paragoni, in questo caso di sponda rossonera: il Tabarez del 1996 e il Terim del 2001 avevano lo stesso fascino esotico, predecessori altrettanto ingombranti e la medesima carenza d'empatia con l'ambiente.
È un problema che riguarda più spesso i tecnici stranieri e in particolare quelli che all'inizio faticano con la nostra lingua. Per gli italiani lo spaesamento può essere dovuto al passaggio brusco dalla provincia al grande club (vedi Maifredi e Delneri alla Juve così come Orrico e Gasperini all'Inter) oppure dall'ostilità preventiva dei tifosi (Ancelotti non riuscì mai a farsi perdonare i suoi trascorsi dagli juventini, a differenza di Allegri). Ma se parliamo di walking dead, di quelli che fin dall'inizio capisci che faranno una brutta fine, il fatto di arrivare dall'estero ha una sua importanza. A Roma i fallimenti di Carlos Bianchi e Luis Enrique hanno fatto epoca: sbagliarono tutto fin dall'inizio e non vennero mai presi sul serio fino all'inevitabile esonero.
Ovviamente a De
Boer auguriamo di ribaltare il cliché, ci mancherebbe. Ma l'olandese il suo destino sembra avercelo scritto in faccia, che sembra quella di un condannato al patibolo anche quando riesce a portare a casa qualche vittoria.
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