di Riccardo Signori
Q uello striscione, «Pazza Inter amala», esposto al Celtic Park durante Celtic-Milan, per qualche minuto è diventato un polo d'attrazione della discriminazione territoriale internazionale. L'Uefa ha voluto verificare prima di capire che si trattava una presa in giro in pura satira scozzese. Ma questo dice che ormai siamo al puro sprezzo del ridicolo.
Ci sarebbe da sorridere, se lo Juventus stadium non ci avesse fatto ripiombare nelle nostre miserie e in quel tifo che non ha più amore nemmeno per i colori, una maglia, un credo. Mercoledì sera, dopo aver steso qualche striscione di protesta in termini civili e perfino divertenti, gli ultras hanno ricominciato i ritornelli della beceraggine contro tutto e tutti, intonazioni razziste e antinapoletane. Le solite cose dei soliti stadi italiani. Un festival di insulti che ha disgustato perfino gli altri spettatori bianconeri.
Continuando così, nelle curve dello Juventus stadium ci saranno sempre più posti per i bambini (come capiterà domenica) e sempre meno per gli ultras, perché squalifiche e curve chiuse saranno routine e non eccezione.
E questo è il problema: i tifosi non hanno più interesse per la squadra loro, se ne infischiano di tifo, amore e fantasia calcistica, la squadra non è più il supremo amore in nome del quale mettere tutto dietro le spalle e pensare al bene comune. No, anche la squadra del cuore non conta più. E le società non sanno più tenere a bada questo tifo degenere e degenerato.
Più che uno sfregio al calcio, ai suoi dirigenti e ai suoi divieti, sta diventando uno sfregio alla ragione di esistere del tifo e magari del pallone o dello spettacolo sportivo. Quel ritornello «noi facciamo il cazzo che vogliamo» è il refrain della curva che non trova più opposizione, è il chissenefrega al destino di società, squadra e calciatori. Le leggi sulla chiusura delle curve, sulla discriminazione territoriale, hanno provocato danni e rotture (in tutti i sensi) ma hanno regalato agli ultras l'arma per far male. Ed hanno ottenuto la peggiore delle soluzioni: club inermi e affidati alle sentenze del giudice, ultras tutti insieme appassionatamente contro la legge calcistica. Le società, che un tempo accettavano connivenze, ora si sono mosse alla guerra avendo le armi spuntate e senza strategia. Non tutte: perché qualcuno tiene ancora per mano gli ultras, chissà a quali condizioni. Ma la devastazione di orecchie e civiltà che si consuma ad ogni partita, anche internazionale, segna e segnala il disfacimento di quel sentimento comune, di quell'idea d'amore che legava i tifosi alla bandiera. Agli uni non importa più nulla del club. E i club farebbero volentieri a meno di certi tifosi. Perfino gli inglesi ci hanno fatto lezione.
Oggi possiamo solo far di conto sulle statistiche che enumerano arresti e denunce. Dicono gli studi che, nelle curve italiane, domina l'estrema destra e che le tifoserie a più alto tasso di coro razzista sono quelle di Lazio, Juve e Roma. L'anno scorso i laziali si fecero pescare in otto episodi, gli juventini tre volte, i romanisti due. In tutto 18 episodi di cori razzisti. Quest'anno siamo a decine di casi ogni domenica.
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