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Talenti in fuga? È colpa dei talenti...

Il baby Cardelli: «Vado via, troppi stranieri». La realtà: gli italiani hanno costi assurdi

Federico Malerba

Un sogno spezzato, come quello di tanti giovani calciatori che non riescono a diventare professionisti. Perché, come dice la canzone di Morandi, solo «uno su mille ce la fa». Ma se la maggior parte degli altri 999 soffre in silenzio, il diciottenne Filippo Cardelli è uscito di scena sbattendo la porta: «Dopo dieci anni di sacrifici lascio il calcio - ha scritto venerdì sul suo profilo Facebook - perché non vedo che senso abbia giocare nella Lazio Primavera circondato da stranieri e essere trattato pure come una m...».

Difensore centrale che l'anno scorso aveva perduto quasi tutta la stagione per un brutto infortunio al ginocchio, Cardelli ha attaccato frontalmente il suo (ex) club e non solo. Se l'è presa con tutto il calcio italiano che, a suo dire, non valorizza i nostri talenti: «Quando ti senti dire che dopo un crociato rotto non sei sicuro di avere le cure della società perché non hai il contratto, quando non ti pagano la visita medico agonistica, non puoi mangiare a Formello o andare in palestra perché non hai il contratto, ti cascano le palle. E ovviamente gli stranieri ce l'hanno, e guadagnano anche tanto. La Serie A è piena di stranieri, il calcio degli italiani è morto e sinceramente se devo essere trattato come uno straniero in patria preferisco andarmene».

Grazie a una borsa di studio volerà negli Stati Uniti, a Kansas City, continuando col soccer nella squadra locale. Ma nel frattempo la sua uscita fa discutere perché quello che lui denuncia - al di là del caso personale - è un problema che nell'opinione pubblica sportiva è sempre più sentito: basti pensare che nella prima partita di campionato, Roma-Udinese, dei 22 titolari l'unico italiano era El Shaarawy; che poi, biologicamente, italiano lo è solo da parte di madre.

Analizzando i numeri, però, si può dire che Cardelli ha ragione solo a metà, e pure su quella metà si può discutere. Perché se è vero che la A parla sempre meno italiano (313 stranieri su 553 giocatori, il 56,6%), i dati della Serie B e soprattutto del campionato Primavera dicono altro: tra i cadetti la percentuale scende al 26,7% (149 su 559), mentre tra le 42 squadre del torneo giovanile, appena riformato, è appena del 17,3% (172 stranieri su 997). E il fatto che Cardelli militasse in una delle squadre che quest'anno ne contano di più, ossia 10 su 27 (come la Juve e l'Inter, ma il record percentuale è dei nerazzurri con 10 su 23), non fa di lui un ago tricolore in un pagliaio di immigrati del pallone.

Igli Tare, ds della Lazio, lascia intendere che Cardelli non era una colonna della squadra e che probabilmente ha strumentalizzato l'addio per cogliere un'occasione di vita importante. Poi invita a controllare i risultati della Primavera laziale degli ultimi anni e il numero dei giocatori italiani lanciati tra Serie A e B: «Cataldi, Crecco, Germoni, Lombardi, Guerrieri, Palombi...». Ci sono anche gli stranieri, certo: «Solo quelli che alzano il livello della squadra, perché un giovane straniero ci costa anche di vitto e di alloggio. Li selezioniamo con dei provini: conta la qualità a prescindere dalla nazionalità».

Ma parlando di stranieri in generale Tare soprattutto conferma quello che anche altri operatori del mercato dicono da anni, ossia che in Serie A molti club preferiscono comprare all'estero perché i prezzi dei giovani di casa nostra sono esagerati: «I presidenti che si ritrovano tra le mani un gioiellino italiano puntano a fare il colpo della vita e sparano alto, anziché investire sulla formazione e cercare di costruire talenti in modo sistematico. In questo dovremmo prendere esempio da paesi come Olanda, Spagna e Francia».

Nessuna discriminazione insomma, nessuna esterofilia preconcetta né scarso amor di patria. Solo banalissimi conti della serva: se per il 26enne Tonelli l'Empoli ti chiede 9 milioni tu compri Bastos a 6,5. E spesso fai pure l'affare.

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