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Stadi chiusi? un gesto di resa

Wembley resta chiuso. Così Vicarage road. Non si gioca Inghilterra-Olanda. Nemmeno Ghana-Nigeria. Niente calcio a Londra e nella sua periferia a Watford, gli hooligans impegnano i poliziotti, non c’è tempo per Wayne Rooney o Wesley Snejder.
La guerra, la pioggia violenta, la neve e il ghiaccio avevano costretto finora gli uomini del football a rinunciare al gioco. Il calcio è sacro, nei suoi riti, nella sua forma, nella sua sostanza seppure drogata dal business. Mai, però, era accaduto che addirittura la squadra dei tre leoni, la nazionale inglese, fosse costretta ad arrendersi alla violenza di cento, mille delinquenti che hanno devastando e minacciano di proseguire nelle loro azioni.
È il segnale di fumo nero, di resa, di crisi e di paura. Ottantamila spettatori avevano già in mano il biglietto per la partita di questa sera a Wembley. Verranno tutti rimborsati, finalmente questo sport prende coscienza che qualcosa di maggiormente serio accada oltre un dribbling e un gol, qualcosa che riguardi la comunità, il Paese. Rio Ferdinand, il capitano del Manchester United, è nato proprio a Clapham, una delle zone maledette di guerriglia in queste ore, tra negozi incendiati, saccheggiati, ristoranti presi d’assalto, finestre e vetrine in frantumi: «Che cosa significa questo per l’Inghilterra? Che gente è mai questa? Non la conosco ma soprattutto non la riconosco». Wayne Rooney è un figlio del popolo anche se il suo conto in banca è da emiro.
La sua reazione è patriottica: «Una vergogna per il nostro grande Paese. La devono smettere di rovinarci, loro se ne infischiano, vivono in un’altra dimensione, il loro malessere non può scaricarsi nelle aggressioni».
Parole, non altro.
Esiste il rischio che slitti il turno di campionato in programma sabato, non uno sciopero burla come dalle nostre parti ha annunciato il sindacato calciatori per qualche euro in più, no, oltre la Manica si fa sul serio, Liverpool-Sunderland viene definita partita a rischio, c’è puzza di marcio, c’è l’aria pesante di una guerra non soltanto di una guerriglia. E gli stadi di calcio sono un serbatoio di rissa, di sfide, di provocazione eppoi Scotland Yard non può avere la testa al football mentre il resto di Londra e del Paese va in fiamme. Non sono mortaretti, non sono bengala e fumogeni, sono bombe vere, sono pistole e coltelli, sono la rabbia di chi ha deciso di scaricare la violenza aprofittando di una situazione sociale fragile, la crisi di Scotland Yard, il caso Murdoch, lo sbandamento dei media e di alcuni politici. Il calcio stavolta non finge di vivere sull’isola dorata. Trasloca nel continente, capisce, intuisce, sa di doversi adeguare per offrire l’esempio, quasi un segnale. E tra undici mesi ci sarà un altro fuoco, quello del tripode, i Giochi dell’Olimpiade. La vetrina dell’Inghilterra è a pezzi, i capelli del sindaco Johnson sono arruffati. Wembley stasera sarà un teatro silenzioso mentre Londra urla.

Senza sapere perché e per chi.

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