nostro inviato a Garlasco
Alle quattro del pomeriggio la Volvo bianca di famiglia riporta a casa il sospettato più famoso d’Italia. Di Alberto Stasi s’intravedono dietro il finestrino i soliti occhiali dalla montatura scura passati chissà quante volte in tv. Quattro notti in cella non hanno scalfito la corazza di cui è rivestito quel ragazzo di 24 anni, simbolo di una giustizia che s’incarta ogni volta di più. Forse, dietro il vetro della station wagon c’è anche un sorriso breve. Forse.
Alberto non si smentisce nemmeno nel giorno, atteso contro ogni speranza, della rivincita. Alle nove del mattino don Florindo, il cappellano del carcere di Piccolini, lo vede disteso sul letto. Forse riposa, forse rimugina sul proprio futuro che ancora non conosce, forse è altrove, come spesso appare da quel 13 agosto a molti osservatori: quasi scollegato dal mondo esterno, distaccato e chiuso dentro pensieri impenetrabili. Alle 11 e tre quarti è libero. Prima di lasciare il penitenziario, il bocconiano non dimentica quel che ha abbandonato all’ingresso: «Posso riavere il peluche?» Quel regalo che Chiara gli aveva fatto e che avrebbe voluto anche in cella. Prende posto, insieme ai genitori sull’auto di uno dei suoi avvocati, Giuseppe Colli. Sfreccia via. E intanto dissemina, come sassolini, le frasi che raccontano l’altro lato della sua personalità; quel carattere così ostinato, così tosto, così dritto. Resistente ad ogni sollecitazione: «Adesso voglio sapere chi è stato. Non mi darò pace finché non troveranno l’assassino».
Ecco, poi, affacciarsi i buoni propositi, il desiderio di afferrare spezzoni di quella vita normale, ordinaria, da bravo ragazzo che era il suo fondale fino al 13 agosto: spiega subito di voler riprendere il tennis, sua passione, poi si concentra sulla tesi, interrotta a un passo dalla consegna: «Adesso devo studiare, speriamo che mi ridiano il computer».
La famiglia Stasi sparisce per alcune ore, anche se è il libro giallo più letto d’Italia. Alle tre e mezzo gli Stasi ricompaiono nel negozio di autoricambi di papà Nicola e di mamma Elisabetta. Nicola Stasi è un uomo con i nervi a fior di pelle: «Paparazzo di m... , ci avete rotto i c... », grida a un fotografo che prova a riprenderlo. Ma è anche un padre che non ce la fa più davanti all’altalena delle angosce, dei dubbi laceranti, delle speranze. A un amico confda: «È innocente, è innocente Alberto, io sono il papà, me l’avrebbe detto, me l’avrebbe detto». In lacrime, Nicola sussurra: «I giornalisti ci hanno tormentato tutti i giorni, dalla mattina alla sera». Poi, sempre più preoccupato, aggiunge: «Il lavoro andrebbe anche bene, ma in questa situazione non ho la testa, no ce la faccio, non riesco a stare dietro a quel che devo fare».
Alle quattro papà, mamma e figlio sono a casa, incorniciati dalla didascalia scritta per la stampa dall’avvocato Colli, l’artefice insieme ad Angelo Giarda, della rivincita: «La famiglia è felicissima. Siamo molto soddisfatti, ma prima di fare qualsiasi commento preferiamo leggere le carte». Gioia e prudenza. La battaglia è vinta, la guerra continua.
All’altro capo del dramma, i Poggi tengono, come al solito, un atteggiamento dignitosissimo: «Per loro - spiega l’avvocato Gian Luigi Tizzoni, legale della famiglia - non è importante trovare un colpevole, ma il colpevole». Rita, la mamma, è ancora più esplicita: «Non volevo e non voglio che stia in carcere un innocente, voglio che sia fatta giustizia. La nostra famiglia non è né con Stasi né contro Stasi, abbiamo fiducia nell’operato della magistratura».
Certo, anche per Giuseppe e Chiara Poggi il momento dev’essere terribile, con quel fluttuare delle notizie, delle ipotesi, delle convinzioni. I Poggi distillano le parole, gli Stasi riprendono fiato nella villetta al capo opposto del paese. E la gente di Garlasco, come un campione rappresentativo degli umori nazionali, si spacca ancora una volta fra innocentisti e colpevolisti. «Io sono una mamma - dice un’artigiana - e Alberto mi sembra tanto un bravo ragazzo. Gli indizi a suo carico sembravano piuttosto labili. E poi se non è crollato dopo quattro notti di carcere significa che è davvero innocente». Qualcun altro azzarda una lettura critica degli ultimi indizi emersi: «Quel sangue trovato sui pedali della bici di Alberto per me risale a sei mesi fa e non c’entra niente col delitto. Non so, forse oggi hanno liberato un innocente». Ma tre persone, riunite in un capannello poco lontano, puntano il dito senza esitazioni: «Chiara era una ragazza molto riservata, con pochissimi conoscenti.
Trovarlo, ammesso che ci sia, è da oggi un’impresa difficilissima.
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