Gli Stati Uniti preparano l’attacco a Teheran

Condoleezza Rice: cerchiamo una soluzione diplomatica, ma l’opzione militare non viene mai esclusa

Alberto Pasolini Zanelli

da Washington

Condoleezza non conferma, Condoleezza non smentisce la rivelazione da parte di un quotidiano britannico di una accelerazione dei preparativi militari dell’America contro l’Iran. In particolare del tipo di esplosivi che possa agire efficacemente in controinstallazioni sotterranee. Gli americani possiedono bombe adatte e le hanno già sperimentate in Afghanistan nel tentativo di «stanare» o semplicemente uccidere Osama Bin Laden in una delle sue caverne-rifugio. Fallirono, ma non per colpa degli ordigni: semplicemente perché Bin Laden era da un’altra parte. I bersagli di cui si parla in Iran sono fissi, ben protetti ma non così segreti. L’ordigno si chiama «bunker-busting» ed è in grado di penetrare in profondità nella terra prima di esplodere; il che dovrebbe accadere nelle immediate vicinanze o addirittura dentro il bunker. Per il lancio potrebbero essere utilizzate, secondo il Daily Telegraph, due sistemi di trasporto: dei bombardieri B2 che potrebbero raggiungere l’Iran, con un solo rifornimento in volo, da delle basi nel Missouri, oppure i missili balistici installati sui sommergibili Trident a propulsione nucleare. Per questi, però, bisognerà attendere ancora due anni.
È in questo lasso di tempo, pertanto, che dovrà maturare la decisione di Bush. Il fatto che il Pentagono stia approntando i suoi piani non indica in sé una decisione di attacco, tanto meno immediato. È compito del comando strategico americano, come in ogni altro Paese, di studiare le possibili «soluzioni» ai possibili problemi. Negli archivi del Pentagono, ad esempio, esiste tuttora un «piano rosso» per l’invasione del Canada, che è stato scritto e riscritto negli anni Trenta e Quaranta ma che continua a far parte dell’archivio dei «non si sa mai». I piani contro l’Iran, naturalmente, sono molto più avanzati e soprattutto molto più urgenti. La linea ufficiale di Washington, ribadita ieri dal segretario di Stato, in un paio di interviste televisive, è che la priorità continua a essere data alla ricerca di una soluzione diplomatica. «Siamo convinti - ha detto la Rice - che un approccio diplomatico robusto, soprattutto con la Russia e con la Cina, ci consentirà di risolvere il problema, a cominciare dal Consiglio di sicurezza dell’Onu». A una richiesta precisa sulle rivelazioni del quotidiano londinese, la Rice ha ricordato che il presidente degli Stati Uniti «non esclude mai nessuna delle sue opzioni, neppure quelle militari. Questa è una costante della politica americana».
Se si arriverà alla decisione di un attacco, comunque, non si tratterà di una invasione massiccia come quella dell’Irak: gli Stati Uniti non ne hanno in questo momento i mezzi e tanto meno la volontà. La scelta in linea di principio è caduta sul metodo, più tradizionale e più prudente, del bombardamento mirato degli impianti. Anche questo comporterebbe rischi, non soltanto per le conseguenze economiche di un eventuale embargo iraniano sul petrolio, ma anche nel vicino Irak dove, a differenza della rivolta sunnita, gli sciiti, anche più estremisti, sono finora tenuti a freno proprio da Teheran. Se li rilasceranno, potrebbero raddoppiare o triplicare gli attacchi contro gli americani e i loro alleati.

L’opzione dei bombardamenti comporta però problemi di calendario, con una incognita principale: quanto manca all’Iran per raggiungere il primo stadio del suo programma nucleare? Cinque anni dicono gli ottimisti, due anni i pessimisti. E poco più di due anni restano da qui alla scadenza dell’amministrazione Bush e forti sono le indicazioni che il presidente vorrebbe, prima di andare in pensione, «risolvere» anche questo problema.

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