Stop alle ricerche, ci si concentra sugli aiuti

Al nono giorno di ricerche le speranze di trovare ancora qualcuno in vita sotto le macerie di Port-au-Prince sono ormai ridotte al lumicino. Le squadre di soccorritori, nonostante gli ultimi rinvenimenti di superstiti dal sapore quasi miracoloso, si apprestano ad arrendersi. Gli Stati Uniti, che coordinano la logistica, si preparano a concentrarsi sull’emergenza cibo e aiuti: nella capitale haitiana e nelle zone circostanti sono centinaia di migliaia le persone che attendono ancora viveri e acqua.
Ieri è tornato il terrore quando la terra ha tremato ancora con due scosse di magnitudo 4.8 e 4.9, leggermente inferiori a quella del giorno precedente. Molta gente spinta dalla disperazione fugge dalla città devastata, perché ha perso le speranze che qualcuno intenda realmente portare aiuti concreti. In realtà lo sforzo internazionale è al massimo: ogni giorno atterrano circa 150 aerei carichi di cibo e di attrezzature sanitarie e per la ricostruzione. Quattro scali aerei sono stati resi disponibili, eppure trovare uno «slot» per atterrare rimane difficile. Il porto della capitale è stato pure parzialmente riaperto, sia pure solo per gli attracchi.
La situazione sul terreno, però, rimane problematica. Nel caos generale i soldati americani si incaricano non solo di distribuire gli aiuti ma perfino di dirigere il traffico, tornato estremamente caotico dopo la ripresa delle forniture di carburante. Le scritte «We need food» sui muri si moltiplicano e nelle tendopoli la richiesta di cibo, di acqua e di altri beni essenziali è diventata ossessiva.
La vita di molti, tuttavia, non è cambiata con il terremoto. nella poverissima Haiti c’è chi abitava sotto una tenda (o in una baracca di lamiera) anche prima e che continua ad andare tutte le mattine al mercato a cercare di vendere un po’ di frutta. Ma anche quei pochi soldi che servono per comprarla sono finiti e così, sempre più spesso, si torna al baratto.
Secondo Guido Bertolaso, capo della Protezione Civile italiana che ieri sera è partito per Haiti per coordinare la missione di soccorso inviata dal nostro governo, «a rendere difficili le cose ad Haiti è l’assenza di un interlocutore locale, in un momento in cui tutti sono disponibili ad intervenire, ma nessuno si prende la responsabilità di fare le cose serie». Bertolaso ha spiegato in un intervento alla Camera, prima di partire, che «ad Haiti incontreremo membri dell’Onu e del governo locale, faremo un lavoro di coordinamento insieme al team dell’Unione europea che sarà guidato da un italiano, Luigi D’Angelo, a riprova della nostra credibilità internazionale e a livello europeo». «Non faremo interventi a macchia di leopardo - ha precisato Bertolaso -, ma in un’area specifica per creare alloggi, per realizzare una tendopoli e per dare assistenza sanitaria».
In questo complesso contesto, mentre le Nazioni Unite onestamente riconoscono che con ogni probabilità non sarà mai possibile fare un bilancio delle vittime e la Croce Rossa prevede di doversi trattenere ad Haiti per tre anni, non manca chi trova l’occasione di montare polemiche politiche.

Il governo haitiano (che sostiene di star gradualmente riprendendo «il controllo della situazione» e annuncia la prossima realizzazione di una tendopoli per 400mila profughi) ha dovuto metter fine alle critiche di Paesi come Venezuela e Bolivia e precisare che «gli americani sono qui su nostra richiesta e solo per aiutarci sul fronte umanitario e della sicurezza, non per occupare il nostro Paese e metterci sotto tutela».

Commenti
Disclaimer
I commenti saranno accettati:
  • dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
  • sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.
Accedi
ilGiornale.it Logo Ricarica