Piccoli uomini risoluti, armati di coraggio e devozione, imbracciano pistole mitragliatrici ceche del tipo Skorpion e pistole Browning Baby con silenziatori artigianali. Ognuno porta con sé diverse granate, mappe del territorio in cui dovranno infiltrarsi e, nei tasconi delle capienti mute da sub corredate di salvagente, scorte di cibo, binocoli, macchine fotografiche e valuta sudcoreana. Negli zaini, uniformi nemiche per “camuffarsi” dopo aver raggiunto la riva — talvolta quella del mare, talvolta quella di un fiume che divide il Nord dal Sud, già teatro di due feroci battaglie: l’Imjin.
Infiltrazioni e raid per informare Pyongyang
Per un Paese come la Corea del Nord, che non ha mai potuto contare su mezzi tecnologicamente avanzati per condurre operazioni di spionaggio in territorio nemico, le missioni basate sulla Human Intelligence — ossia l’impiego fisico di spie al di fuori dei confini nazionali — hanno rappresentato a lungo l’unica risorsa. Per questo motivo, l’invio di sottomarini tascabili e uomini rana in missioni di ricognizione e raccolta di informazioni si è protratto fino alla fine del XX secolo, nonostante il rischio costante di fallimenti compromettenti.
Dalla fine delle ostilità nel 1953, quando la penisola coreana venne divisa lungo il 38º parallelo — lasciando il Nord sotto l’influenza sino-sovietica e il Sud sotto quella del blocco occidentale — si sono verificate centinaia di piccole incursioni, raid e “black ops” che hanno coinvolto infiltrati nordcoreani. Molte di queste operazioni si conclusero in incidenti mortali.
Nel giugno del 1983 furono recuperati tre corpi: tre infiltrati delle unità speciali nordcoreane che avevano tentato di attraversare la Zona Demilitarizzata per raggiungere la Corea del Sud. Nessuno seppe mai quale fosse la loro missione. Ma non era la prima volta. Fu proprio l’equipaggiamento che portavano con sé a raccontare parte della loro storia, fungendo da indizio per chi, anni dopo, avrebbe ritrovato il corpo senza vita di un altro incursore.
Nel settembre 1996, a Gangneung, un sottomarino tascabile nordcoreano della classe Sango, inviato dal braccio operativo di spionaggio di Pyongyang — il Reconnaissance General Bureau — imbarcò un’unità di commando con l’obiettivo di raggiungere le coste della Corea del Sud. Dopo aver tentato senza successo una missione di spionaggio e l’eliminazione del presidente sudcoreano Kim Young-sam, in visita nella città di Chuncheon, il sottomarino si arenò sui fondali a causa di una tempesta. Tutti i membri del commando, compreso l’equipaggio, furono costretti a darsi alla macchia nell’entroterra. Braccati per oltre cinquanta giorni, 25 dei 26 nordcoreani che avevano preso parte alla missione morirono — per mano dei propri compagni o negli scontri a fuoco con i soldati sudcoreani. Solo un superstite sarebbe riuscito a rientrare in Corea del Nord.
L'incidente di Donghae
Un’altra operazione di spionaggio venne scoperta nel luglio del 1998, a conferma di quanto la guerra segreta tra le due Coree fosse tutt’altro che terminata. Una mattina di luglio, il corpo di un sabotatore nordcoreano emerse sulla riva nei pressi di Donghae, lungo la costa orientale sudcoreana. Indossava una muta da sub, bombole d’aria e portava con sé, ancora una volta, una pistola mitragliatrice Skorpion di fabbricazione cecoslovacca, oltre a una telecamera subacquea, bombe a mano e una radiotrasmittente. L'equipaggiamento era compatibile con quello degli "infiltrati nordcoreani" catturati in passato. Anche le pistole "Browning Baby", compatte e facilmente occultabili, sembravano essere parte essenziale dell’equipaggiamento standard assegnato alle unità speciali. Pochi giorni dopo fu individuato un mini-sottomarino che poteva trasportare fino a cinque subacquei.
L’autopsia del sabotatore di Donghae stabilì che era morto d’infarto durante il tentativo di raggiungere la costa, e che il decesso risaliva ad almeno ventiquattro ore prima del ritrovamento. Degli altri membri del gruppo non fu mai trovata traccia. Ma la vicenda, come molte altre rimaste senza conclusione, era prova evidente che gli infiltrati nordcoreani avevano continuato, per decenni, a muoversi silenziosamente oltre la Dmz. Lo dimostrava il ritrovamento del sottomarino classe Yugo che si incagliò in una rete da pesca, e venne perduto mentre veniva trainato dalla marina sudcoreana. Quando venne recuperato a una profondità di appena 30 metri, furono recuperati anche i corpi di nove membri dell'equipaggio: quattro di loro si erano suicidati sparandosi, dopo aver prima sparato e ucciso altri cinque agenti in quello che i funzionari sudcoreani definirono un "omicidio-suicidio". La presenza di bevande sudcoreane suggerì che l'equipaggio avesse "completato una missione di spionaggio", mentre i registri di bordo mostrarono che lo stesso si era "infiltrato in acque sudcoreane in diverse occasioni".
Il raid alla Casa Blu
La più famosa tra le “incursioni” è senza dubbio quella del gennaio 1968, quando un commando di 31 agenti dell’Esercito Popolare Coreano tentò di assassinare il presidente sudcoreano Park Chung-hee. Il gruppo attraversò la zona demilitarizzata (Dmz) e penetrò nella provincia di Gyeonggi, dove superò il fiume Imjin per poi indossare uniformi dell’Esercito della Repubblica di Corea e tentare di infiltrarsi a Seul. L’obiettivo era decisamente “audace”: raggiungere la Casa Blu, irrompere nel palazzo presidenziale, dividersi in due squadre e decapitare quello che veniva considerato il leader autoritario della Corea del Sud imposto dagli “invasori” americani.
Quasi tutti i membri del commando nordcoreano furono catturati e giustiziati, o morirono negli scontri a fuoco con le forze sudcoreane che si protrassero per le due settimane successive al fallimento della missione. Solo uno di loro venne catturato e lasciato in vita, mentre si ritiene che un altro sopravvissuto sia riuscito a fuggire verso Nord, tentando di riattraversare la zona demilitarizzata senza alcuna certezza di scampare alle mine e alle sentinelle. Da un lato del confine lo avrebbero braccato, dall’altro — più probabilmente — non lo avrebbero riconosciuto come agente di un’unità specializzata in sconfinamenti, spionaggio e rapimenti nel Sud.
L’agente nordcoreano catturato, fervente comunista appartenente alla squadra d’élite delle forze speciali nordcoreane soprannominata Unità 124, si chiamava, tanto per cambiare, Kim. Reso in seguito noto come l’unico sopravvissuto, dichiarò di essere stato “graziato” perché non aveva “sparato neanche un colpo” durante gli scontri con i sudcoreani — segno, forse, che era pronto a passare al nemico. L’ex commando affermò che l’attacco del 1968 era stato ordinato da Kim Il-sung: un favore che Seul avrebbe poi voluto “restituire”, pianificando una rappresaglia per il fallito raid alla Casa Blu. L’operazione doveva essere affidata a un’altra unità specializzata in operazioni segrete, guerra irregolare, penetrazione a lungo raggio e missioni rischiose, appositamente creata per assassinare Kim Il-sung: l’Unità 684.
Tutto molto nello stile delle due Coree, entrambe devote allo spirito di vendetta e alla legge del taglione. “Occhio per occhio, dente per dente”: un approccio che ha scandito un conflitto a bassa intensità che, in realtà, non è mai terminato davvero.