Lo storico Sabbatucci: «Questi cortei sono solo folclore»

Ormai sono un canovaccio con poche variazioni. Sbiadito. «I cortei avranno anche qualche ragione, ma è oscurata dal folclore: sono diventati un rito stagionale». Giovanni Sabbatucci, professore di Storia contemporanea alla Sapienza di Roma, in un editoriale sul Messaggero di ieri definisce le proteste di questi giorni «l’ennesima replica di un copione già recitato molte volte nell’ultimo quarantennio».
I cortei non servono a nulla?
«Non è una mia scoperta... In qualche caso, forse, saranno serviti. Ma quando si ripetono stagionalmente e utilizzano sempre gli stessi slogan generici, che sanno di già detto, allora non ne vedo proprio l’utilità. Poi, certo, uno è libero di manifestare fin che gli pare, per carità».
È un professore famoso, in un ateneo famoso anche per le proteste. Si dissocia così?
«Non ho mai amato molto le manifestazioni. Mi sono laureato nel ’68: quindi non l’ho fatto. E non solo per ragioni anagrafiche: è che non ho mai avuto simpatie per queste mobilitazioni. Potrei capirle se fossero un evento eccezionale e contestassero punti specifici».
In questo caso?
«Qualcosa di preoccupante c’è, ma non mi piace la rappresentazione perenne degli stessi slogan e delle stesse formule».
Le proteste hanno delle ragioni?
«Credo che certi tagli, da soli, rischino di essere troppo punitivi. Ma, se anche esistono delle ragioni, sono oscurate dall’aspetto folcloristico e poco argomentato dei cortei. E poi questa protesta è squalificata perché ce ne sono state verso tutti gli interventi di riforma, sempre basate sulle stesse argomentazioni deboli, sempre difese dello status quo».
Esempi di slogan triti e ritriti?
«Sul maestro unico, ad esempio. Secondo me non varrebbe la pena scendere in piazza ma, in ogni caso, è un tema che si può discutere. Se però dici che è il ritorno del “pensiero unico” o che si tratta di un “provvedimento dittatoriale”, allora svanisce ogni fondamento».
Le proteste possono diventare dannose?
«Sì, se sono il solito ritornello che sa di stantio, se sono indiscriminate e condite di significati politici esagerati».
Il corteo è un’abitudine?
«Sì. Ormai ne ho visti tanti. Non è che avessero sempre torto, ma non ha nemmeno sempre torto il ministero. Tutti quelli che hanno tentato una riforma sono stati sommersi dalle critiche. Ad esempio, sull’aumento delle tasse universitarie, perché protesti? Perché la collettività dovrebbe pagare per i pigri?»
E perché i suoi colleghi protestano sempre?
«Primo: per un riflesso condizionato. È un rito che si ripete da quarant’anni. Secondo: lo status quo conviene, mentre bisognerebbe lavorare di più e meglio. Anche i prof sono una corporazione, sebbene non privilegiata come un tempo».
Quanto conta la politica?
«È solo un di più.

C’è la componente ideologica, che è un po’ un ingrediente fisso di queste proteste; ma l’esperienza ci dice che le stesse critiche sono piovute su Berlinguer e, comunque, si può sempre buttare in politica, perché chi riforma “tradisce gli ideali della sinistra”. Ma in realtà è l’idea di cambiare marcia che non va proprio giù».

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