BerlinoLa domanda del giorno dopo è sempre, tragicamente, la stessa: perché? «Warum» e un punto interrogativo tracciato con un pennarello blu dal tratto incerto è su un foglio che una studentessa di Winnenden ha posato sul muretto dell'istituto scolastico Albertville. Nove suoi compagni di scuola non ci sono più, spazzati via dalla follia omicida di un altro studente che fino a dieci mesi fa aveva frequentato le stesse aule, gli stessi professori, gli stessi alunni. Il vento s'infila sotto il foglio, ne solleva gli angoli, quel perché si agita inquieto tra i lumini accesi che fin dalla sera prima studenti, professori e genitori hanno portato sul luogo della strage. Qualche volta il dolore può essere un sentimento solido e questo dolore oggi pesa, è un muro attraverso il quale non è consentito passare. Di pietra sono le facce dei giovani e anche i loro cuori, in una cittadina idilliaca che ha perduto per sempre la propria innocenza e la propria allegria.
Per dare risposta a quella domanda, gli investigatori stanno ricostruendo i tasselli scomposti della vita apparentemente normale di Tim Kretschmer, il diciassettenne che per due ore e mezzo s'è trasformato nel personaggio di uno dei suoi videogiochi preferiti, Counter-Strike, talmente violento che è vietato venderlo ai minorenni. La rete è la nuova arena delle indagini. Da essa emerge l'ultimo contatto di Tim con il mondo esterno. Il messaggio ad un amico in Baviera, Bernd, forse un soprannome, uno dei tanti che raffigurano i legami digitali che si stringono dentro lo schermo di un computer: «M..., ne ho abbastanza, tutti mi prendono in giro, ho le armi, domani vado nella mia ex scuola e faccio una grigliata come si deve». Erano le 2.47, un'ora tarda nel buio della notte, quando i piccoli drammi interni diventano incubi che non fanno dormire e possono trasformarsi in realtà. Bernd non lo ha preso sul serio. Sette ore dopo Tim seminava la morte uccidendo 15 persone oltre che se stesso.
Dalla soffitta di famiglia emergono frammenti che stridono con l'immagine di ragazzo tranquillo. Una fotografia lo ritrae orgoglioso sul gradino più alto di un podio, un trofeo in mano, la gioia per la vittoria in un torneo di ping pong. Ma è ingiallita dal tempo. «Due settimane fa», racconta adesso Fabienne B., una dodicenne che lo conosceva, «ci aveva mostrato una lettera scritta ai genitori, diceva che soffriva e che non ce la faceva più, lo abbiamo preso in giro». Tim non viveva una vita normale, non più. Era un pessimo studente, aveva avuto una fidanzata, pare che ora facesse il filo a una vicina di casa. Certo, sono quasi tutte donne le sue vittime. Era depresso, sul serio, da aprile a settembre dello scorso anno era finito cinque volte in una clinica psichiatrica. Gli avevano prescritto una cura, sarebbe dovuto tornare in clinica, di tanto in tanto, ma non s'era più fatto vedere. Sulla scrivania gli inquirenti hanno trovato un certificato che ne conferma l'inadeguatezza al servizio militare. Eppure le armi gli piacevano. Non solo quelle digitali sul computer. Sulle pareti della sua cameretta non c'erano i poster delle star del momento ma quelle di armi ad aria compressa. Il padre, interrogato per ore dalla polizia, aveva la passione del tiro a segno, frequentava il poligono di un'associazione della quale era membro, possedeva quindici armi regolarmente denunciate, 4.600 munizioni. Nella cassaforte, però, c'era spazio solo per quattordici. In giro, a disposizione di un figlio depresso, c'era la Beretta e tutti i colpi. Alla fine della mattanza, i poliziotti hanno fatto i conti in tasca a Tim: aveva a disposizione 250 proiettili. Se non fossero intervenuti subito nella scuola, costringendolo a scappare fuori, il conto delle vittime sarebbe stato insopportabile.
La famiglia ha abbandonato la villetta, è andata altrove, la polizia non dice dove. Davanti alla scuola invece gli studenti aumentano, sostano silenziosi, non vogliono andar via.
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