Gli stranieri? Sono la maggioranza

La classifica dei detenuti: primi i marocchini, poi egiziani tunisini e algerini

Le statistiche cambiano di giorno in giorno, in quel flusso incontrollato di entrate e di uscite che le carceri milanesi registrano quotidianamente. Ma ormai a San Vittore, dove approdano i detenuti in attesa di giudizio, gli italiani sono ormai stabilmente una minoranza. E la percentuale di stranieri sale in continuazione anche negli altri due istituti che costituiscono, insieme alla vecchia e cadente «malastalla» di piazza Filangieri, il sistema carcerario milanese: Opera, dove approdano i condannati alle pene più pesanti, e considerati più pericolosi, e Bollate, la struttura a sicurezza attenuata dove vengono avviati i condannati considerati più disponibili a percorsi di riabilitazione e reinserimento.
Della comunità straniera, i detenuti di origine araba costituiscono la fetta più consistente: a San Vittore nella classifica complessiva delle nazioni di provenienza, il Marocco è al primo posto, l’Egitto al terzo, la Tunisia al quinto, l’Algeria al settimo. Tra i popoli maghrebini ci sono differenze culturali anche consistenti, ma in carcere finiscono per costituire una unica, grande «nazione islamica» che ha nella pratica religiosa il suo collante. E che, secondo i timori delle forze di polizia, trova nella popolazione detenuta un fertile terreno di coltura per la predicazione integralista.
In base ai regolamenti della amministrazione penitenziaria, proprio per evitare fenomeni di proselitismo gli estremisti condannati per terrorismo devono essere destinati a carceri del circuito «differenziato», a Benevento e a Macomer, in Sardegna: a Benevento, per esempio, è stato rinchiuso Abu Imad, imam della moschea di viale Jenner, quando è divenuta definitiva la sua condanna per terrorismo internazionale (nel frattempo, paradossalmente, Abu Imad ha ottenuto dall’Italia asilo politico per evitare di venire riconsegnato all’Egitto dopo avere espiato la pena: ma sarà interessante vedere che scelte farà quando uscirà dal carcere, ora che nel suo paese d’origine la situazione politica sta radicalmente mutando).
Ma anche in assenza dei predicatori professionisti, in carcere la comunità islamica ha ottenuto di potersi organizzare. In ogni raggio di San Vittore una cella è stata adibita a moschea, e i detenuti di fede musulmana hanno scelto al loro interno il confratello destinato a rivestire il ruolo di imam. La predicazione e la preghiera avvengono regolarmente. E insieme al diritto di professare la propria fede, la comunità islamica avanza una serie di rivendicazioni, puntando a tradurre in risultati concreti la posizione di forza che riveste dentro il carcere: più posti di lavoro, più libri in arabo, e cibo halal macellato secondo il Corano.
Il tema più delicato è quello dei «lavoranti», i detenuti che vengono ammessi alle diverse mansioni all’interno del carcere.

Non solo perché vengono (anche se modestamente) retribuiti, ma anche per la relativa libertà di movimento di cui i carcerati addetti alla distribuzione del cibo o della spesa, o impiegati nelle pulizie, godono inevitabilmente, e che ne fa degli strumenti di collegamento tra i diversi reparti. Per questo, i vecchi clan malavitosi italiani facevano di fatto da «ufficio di collocamento» interno: un ruolo di cui oggi puntano a impadronirsi i clan venuti dal Maghreb.

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