Ma lo stretto del Bosforo separa due mondi inconciliabili

Filippo Facci

La mattina del primo gennaio 2006 ero a Istanbul con l’intenzione di partecipare alla messa dei cristiani armeni: interesse personale di un ateo. Di buonora mi sono incamminato lungo l’Istiklal Caddesi. Il corso era ordinato e tranquillo, ossia privo di quel genere di postumi da Capodanno che persino nel Beyoglu, il quartiere più occidentale di Istanbul, rimane una festività da occidentali che i musulmani snobbano e solo i ristoratori benedicono.
Già da un paio di sere, sempre lungo la Istiklal Caddesi, laddove l’Occidente si pregusta grazie ai megastore della Nike e a ristoranti capaci di chiuderti in bagno per tre giorni (colpa del kebab con lo yoghurt, questa volta) avevo sbirciato le librerie alla distratta ricerca di un qualche volume di Orhan Pamuk, il più famoso scrittore turco, già insignito di vari premi internazionali e tuttavia accusato di «denigrazione dell’identità nazionale» per quello che aveva scritto e dichiarato sul genocidio dei cristiani armeni. Ora il processo è stato archiviato, ma il governo Erdogan non transige, e ha semmai consolidato un negazionismo davvero poco europeo: l’estate scorsa è entrato in vigore il nuovo articolo 306 del codice penale, che punisce con dieci anni di carcere chi affermi che gli armeni hanno subìto un genocidio.
Pensavo a queste cose anche perché intanto non trovavo la Chiesa Armena. Le due cartine a mia disposizione spiegavano che continuavo a girarci attorno, ma niente, non compariva mai, non un passaggio, una vista. Per trovarla ho dovuto aggirare la logica e un paio di pescivendoli: l’unica maniera di accedere alla chiesa armena (e già questo dice tutto) consiste nell’entrare nel mercato del pesce di Galatasaray e aggirare una bancarella dietro la quale c’è un passaggio e poi un cortiletto, e finalmente la chiesa.
La liturgia è molto suggestiva, del tutto diversa da quella cristiana cattolica, ma questo ora non interessa. Ad attrarre l’attenzione, mia e di chi mi accompagnava, furono gli sguardi di sospetto misto a compiacimento di quei venti, massimo trenta fedeli presenti. La sensazione, cioè, non tanto di essere fuori del tempo, ma, a rigor di legge, fuori dalla Turchia: la Turchia musulmana coi suoi settantuno milioni di fedeli, il Paese in cui le donne sono sostanzialmente assenti dalla vita pubblica, il Paese in cui cinque ragazze sedicenni che stavano facendo un bagno in mare con il chador - si ricorderà - furono lasciate affogare perché la religione islamica proibiva ai bagnini di toccarle. Il Paese in cui un cattolico, per legge, non può fare carriera nella pubblica amministrazione. Il Paese in cui non vedrete mai, per strada, un prete o una suora o simili: l’uniforme religiosa, non musulmana, è proibita.
Poi, alla fine della Messa, si avvicinarono e ci invitarono a casa del sacerdote per festeggiare l’anno nuovo, che loro celebrano come il resto d’Europa e non, paradossalmente, come i restanti 71 milioni di turchi. Salimmo al primo piano di un palazzetto, ci fecero sedere attorno a dei tavoli, in tutto saremo stati una decina, e ci diedero due pani a testa, uno dolce e uno salato, e da bere la Fanta.
Poi, dopo un po’, io mi alzai e mi avvicinai a un muro tappezzato di fotografie: quelle, scattate una volta l’anno dall’Ottocento, della comunità armena di Istanbul. L’occhio scorreva velocemente sulle foto attorno al 1915, quando i turchi deportarono e affamarono e violentarono e decapitarono e impalarono un milione e mezzo di cristiani armeni. Più fonti spiegano che Adolf Hitler, nel prefigurare lo sterminio degli ebrei, si ispirò chiaramente a quello degli Armeni, tanto da fargli dire, in un celebre discorso del 22 agosto 1939, che nell’invadere la Polonia occorreva massacrare uomini e donne e bambini senza preoccuparsi di eventuali conseguenze future: «Chi mai si ricorda oggi ­ si chiese ­ dei massacri degli Armeni?».
Quelle foto, per intanto: laddove, da un anno all’altro, vedevo che adulti e anziani sparivano e via via rimanevano solo giovani e bambini. Cercai di strappare qualche parola a un ecclesiastico, che si era avvicinato, ma si vedeva che non ne aveva nessuna voglia, o che era, anzi, palesemente reticente, o che parlava solo un inglese addirittura peggiore del mio.
E però pensavo, davanti a quelle foto, a quando Giovanni Paolo II parlò dei genocidio armeno e il principale quotidiano turco lo definì un malato di mente. Pensavo allo schiaffo diplomatico che il governo di Ankara ha tirato a questo Papa nel negargli il permesso di visitare Costantinopoli per incontrare il patriarca ortodosso. Pensavo a chi ambisce di entrare in Europa e però nega ai cattolici uno status giuridico, al punto che i medesimi non possono aprire seminari, far carriera, circolare in tonaca.
Più tardi, fuori di lì, camminavo guardando quell’immenso e farlocco bazar che è Istanbul e pensavo che fosse assai meno interessante della sua storia. C’è un ponte avveniristico che unisce le rive europea e asiatica, ma il Bosforo è solo un braccio di mare freddo e ostile.

Manca un ponte tra le paginette della guida e le gelide schermate della realtà, manca un ponte tra il panorama notturno degli antichi palazzi illuminati a candele e i neon e le alogene degli hotel, e forse, nonostante tutto, manca ancora un vero ponte tra loro e noi.

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