Sarebbe stolto dimenticarsi di Stultus. Per Trieste innanzitutto, a cui Dyalma Stultus deve i natali, gli affetti familiari, la prima formazione culturale e sentimentale, ma non solo, se è vero che la città ha espresso nell'arte italiana del primo Novecento un momento per nulla provinciale e piuttosto coerente nella sua connotazione complessiva, tanto da indurre a parlare in proposito di una scuola artistica locale. Rispetto a questo comune sentire artistico, Dyalma Stultus già nel 1918, a 17 anni, a Venezia per studiare in Accademia dietro due «venerabili maestri» quali Ettore Tito e Augusto Sezanne, e poi a Firenze, Milano, Roma, di nuovo a Firenze, con intermezzi anche importanti a Marino e Siena, è stato satellite piuttosto che pianeta. È a Firenze che Stultus passa la parte più significativa dei suoi anni, lasciandovi le sue figlie, Nada e Selma, che ho avuto la fortuna di conoscere e dalle quali è venuta la decisione, con l'altra figlia Marina, di donare dieci importanti opere del padre al Museo Revoltella.
Eppure è innegabile che il modo di Stultus di intendere l'arte trovi consonanze in quello di altri triestini della sua epoca, in particolare lungo il crinale che definirei, a distinguerlo da un altro meno legato alla stessa esigenza (penso a Nathan, Fini, Sofianopulo, Rietti, Asco, Lannes, Lamb, Ceconi di Montececon, Sambo, Lucano, Zangrando), nazionale se non nazionalista. Alludo alla via maestra segnata da Pietro Marussig, protagonista dell'italianissimo rappel à l'ordre indicato da «Novecento» dopo precedenti che l'avevano visto farsi colorista alla francese come pochi altri, nel solco della quale si inseriscono altri concittadini come Carlo Sbisà e Bruno Croatto, per certi versi anche Edmondo Passauro e Attilio Selva.
Quasi tutti i triestini nominati sono dovuti andare a studiare fuori dalla loro città, qualche volta sistemandosi lontano dall'ombra di San Giusto (come Marussig, Selva e Croatto, il primo milanesizzatosi, gli altri due diventati romani di adozione). Con tutto ciò, ci ritroviamo oggi a riconoscere una matrice condivisa di triestinità in artisti quali Stultus, Sbisà e Croatto. Sbisà e Stultus hanno avuto un referente artistico in comune fra gli altri che nel corso degli anni Venti contraddistinsero i loro momenti lontani da Trieste, per Sbisà destinati a interrompersi con la fine del decennio: Felice Carena, dal 1924 docente all'Accademia delle Belle Arti di Firenze dopo essere stato di riferimento a Roma, venendo assistito nell'organizzazione della sua scuola agli Orti Sallustiani proprio da Attilio Selva, per i giovani artisti più vogliosi di conciliare estero e Italia, modernità e continuità col passato. Non erano mancati in Stultus, prima di trasferirsi a Firenze, gli impulsi associabili a quelli di altro internazionalismo triestino, legittimati da un contesto di formazione, il veneziano, che guardava all'Impressionismo e alle Secessioni nel malcelato intento di rilanciare la sua storia pittorica, la più coloristica che si fosse mai conosciuta prima dell'avvento della modernità. A Firenze, però, Stultus acquisisce un nuovo, nazionale senso della misura, rivelato con chiarezza programmatica nelle Due madri del 1926, e altrettanto capita a Sbisà, anche lui attraverso la figura decisiva di Carena.
Ecco, mi pare che il parallelismo fra i due giovani triestini, nel periodo in cui si ritrovano a sciacquare in Arno i panni della loro lingua artistica, si fondi in primo luogo sulla lezione careniana così come poteva essere avvertita dai due in quel momento, ovvero sul modo in cui il pittore piemontese prospettava una soluzione di compromesso fra un'istanza coloristica che è ben cosciente delle esperienze svolte all'estero in questa direzione e un'istanza disegnativa che rispetta il recupero della tradizione rinascimentale che accomunava, malgrado le incomprensioni reciproche, il milanese «Novecento» e i romani «Valori Plastici», ma tenendosi un passo indietro rispetto all'astanza ultra-modernista del plasticismo esasperato che da quell'ambito stava provenendo. Fra la natura e la sua serrata trasposizione entro un'aura di valenza metafisica, insomma, Carena sembra ancora avere più a cuore la prima.
È la stessa necessità che mi pare cogliere in certi nudi di Sbisà, corrispettivi a quelli di Stultus nella Dalila o in Intimità (1926-28), quasi ingresiani nel rimandare a un ideale sereno e solare di natura, fino a quello neo-manierista della Venere della scaletta (1928) che fa da punto di svolta, preannunciando, col ritorno di Sbisà a Trieste, il prevalere della severità tridimensionale del disegno e quindi della linea più vicina a «Novecento», con i volti sempre più allungati e marcati nei tratti, i volumi sempre più massicci e squadrati, rispetto ai quali il colore è ancillare, per quanto di rilevanza niente affatto trascurabile.
In Stultus, invece, l'affinità col modello autonomo e neutrale di Carena rimane ancora ravvisabile oltre un decennio dopo nella Portatrice di frutta (1938), l'opera certamente più ragguardevole fra quelle donate dalle figlie dell'artista al Museo Revoltella, con lo sfondo da Montagne Sainte-Victoire cézanniana nascosto da un viadotto che converte in chiave di romanità sironiana la pre-futuristica Ferrovia del Pacifico di Previati, mentre sul davanti un nudo da modella dell'Anticoli Corrado che tanto piaceva a Carena, un nudo solo apparentemente popolare, con i capelli raccolti e le sopracciglia sfoltite secondo la moda borghese del tempo, evita lo sguardo diretto perché la sua missione non è sedurre, tanto meno mostrare l'edonistico splendore di un corpo sinuoso nella sua impeccabile semplificazione, che l'ombra tornisce a dovere alternandosi alla luce, quanto semmai quella di essere il tramite di una nuova allusione a Cézanne, le pesche in natura morta da cui desumere l'esprit de géométrie che in natura tutto regge, lo stesso su cui s'imposta, concretizzandolo a meraviglia, l'ispirata fanciulla in secondo piano. Sempre sotto totale controllo il colore, come lo Stultus di parentela careniana ci ha abituato a constatare, mai troppo contrastato, mai troppo condizionato dall'ombra nel suo scorrere liberamente in superficie, tenuto in tonalità prevalentemente chiare, la contiguità delle quali è fatta in modo da permettere di individuare una dominante a riguardo.
Non so in quanti altri artisti italiani come in questo Stultus del 1938 risulti così facile riverire un maestro straniero, quando pubblicamente la retorica autarchica aveva preso il sopravvento su tendenze più meditate e controllate che hanno comunque ancora modo di esprimersi nella dimensione privata o della cerchia degli adepti. Non so in quanti altri artisti Carena, a cui pure dovevano tanto i vari Cavalli, Capogrossi, Pirandello, Montanarini, continui a essere additato come esempio di piena attualità, quando altrove le nuove leve cominciavano a considerarlo superato. Una fedeltà che, nelle sue motivazioni più autentiche e sentite, non viene smentita neanche a guerra inoltrata, periodo in cui Stultus apre le porte alla magia del realismo con un capolavoro di donghiana sospensione quale L'attesa (1942), o conclusa, quando riferirsi a Carena era diventato perfino pericoloso (viene allontanato dall'Accademia per i suoi eccessivi trascorsi fascisti, abbandonando Firenze per Venezia).
Non v'è dubbio, l'epoca è cambiata così come anche le amicizie (fra le altre quelle con Colacicchi, Vagnetti, Conti, Bacci): lo si sente in ciò che Stultus dipinge. C'è un certo sentore di Neorealismo in quel Contadino stanco (1948) che rende omaggio, forse con una punta di opportunismo, allo Strapaese populista di Rosai, e ancora di più in Fonderia (1954) che mette una febbrile industria al posto di più prevedibili paesaggi incantati. Ma la sostanza di fondo rimane immutata, in una ricerca che continua a perseguire l'equilibrio di natura tra colore e disegno, luce e ombra, Francia e Italia, levando quel piede avanzato in acqua che nell'Attesa sembrava disponibile a cercare nuovi stimoli nei «Pittori moderni della realtà», i fiorentinissimi Annigoni, Sciltian, i due Bueno. E invece Stultus preferisce rimanere al di là della riva, come a ridosso di «Novecento» si era collocato, sfiorandolo (si pensi alla mirabile Contadina con coniglio del 1931, tra Funi e Balthus), ma mai volendolo attraversare.
Come se i tempi ancora giovani e gaudenti della pagana Baccante (1942), chissà se la stessa che dopo lo scialo recupera contegno in Dopo il bagno (1943), non fossero mai passati. Che il mondo vada pure avanti nei suoi deliri modernisti: io, sembra dire Stultus, sto bene qui.
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