La sua autobiografia è l’epitaffio d’Europa

La sua autobiografia è l’epitaffio d’Europa

Lungo tutta la sua attività di scrittore, Gregor von Rezzori ha continuato a romanzare la sua vita, e non sorprende che arrivato, a «fine corsa», alla autobiografia, chi ne è stato un fedele e felice lettore vi ritrovi a ogni pagina echi e memorie dei romanzi che l’hanno preceduta. Sulle mie tracce (Guanda, 318 pagine, 19,50 euro) è il terzo e definitivo anello di una trilogia - gli altri due sono Tracce nella neve, sempre per Guanda, e il non ancora tradotto Greisengemurmel, Borbottio di un vegliardo - che lo ha impegnato nell’ultimo decennio di un’esistenza lunga (nato nel 1914, von Rezzori è morto a 84 anni, nel 1998), operosa (Un ermellino a Chernopol, Storie di Maghrebina, Edipo a Stalingrado, per citare solo alcuni titoli) e allo stesso tempo piena di sgangherati disimpegni dissipatori: cronista mondano, viveur, charmeur...
Nella post-fazione che accompagna il volume, Andrea Landolfi, che è stato una sorta di angelo custode della fortuna letteraria di von Rezzori in Italia, parla giustamente di «storia in una vita» più che di «storia di una vita», una riflessione più che una ricostruzione, propria di quella che lo stesso autore ha battezzato con il neologismo Epochenvershleppung, differimento epocale, ovvero il sovrapporsi anacronistico di elementi di realtà appartenenti a epoche diverse che nel mantenere una forza d’inerzia sussistono oltre il loro ciclo vitale e ingannano quanto al presente che intanto ne ha preso il posto. Nato l’anno in cui scoppiò la Grande guerra, il giovane von Rezzori è stato segnato dall’impero absburgico nonostante nella sua giovinezza l’impero absburgico non ci fosse più, quarantenne nel secondo dopoguerra, il suo terreno di elezione come romanziere resta quello degli anni fra le due guerre mondiali...
Per comprendere al meglio un autore così complesso pur nell’apparente facilità di scrittura, niente vale più del cucire l’autobiografia di Sulle mie tracce al romanzo da lui più amato eppure meno compreso, quel La morte di mio fratello Abele che resta come il suo grande libro fallito, quello che simboleggia un’epoca e nel quale protagonisti e situazioni concorrono a ricreare lo Spirito del tempo, nonché a raccontare la fine di un mondo, di un modo di esistere, di vivere e di pensare, persino di amare. Epitaffio dell’Europa, sarebbe potuto esserne il titolo e nell’aggettivo «fallito» usato poc’anzi, non c’è alcun giudizio critico: le grandi imprese possono anche non giungere a compimento, ma l’insuccesso nulla toglie alla loro ideazione e al loro caparbio perseguimento.
Qual è il von Rezzori che emerge da questo duplice confronto? È un uomo di talento, romeno di nascita, viennese di adozione, europeo per elezione, che vede il suo mondo andare in cenere nel grande incendio bellico del 1939. Scrittore teso verso il sogno del libro della vita e di una vita, la sua, il dopoguerra gli riserva invece il ruolo di sceneggiatore cinematografico di successo, gran scialacquatore di denaro, spesso e volentieri pieno di debiti, di donne e di alcol, di virtuosi proponimenti letterari e di poco nobili patteggiamenti economico-lavorativi. Dal disastro della Seconda guerra mondiale si salva «imboscandosi» più o meno elegantemente, ma tutto - amici, parenti, luoghi - va in pezzi, lasciandolo straniero, senza patria e, soprattutto, senza più Europa... Solo che, come europeo, von Rezzori sarebbe potuto andare bene, per una sorta, appunto, di «differimento epocale», nel XVIII secolo, in quel Settecento in cui il mot d’esprit, il cinismo elegante, l’amoralità come suprema virtù erano di casa e concorrevano alla creazione di un tipo umano particolare, cosmopolita, dandy e cortigiano, delizioso nelle conversazioni quanto inaffidabile nei momenti di bisogno... Essere così nell’Europa fra le due guerre è però un lusso che non ci si può permettere ed è ciò che in fondo pesa su von Rezzori uomo e scrittore come un macigno: nel macello che si scatena non prende posizione, non fa una scelta, se non quella, umana, troppo umana, della propria sopravvivenza. E infatti sopravvive, ma intorno non gli rimane che il deserto. Ed è qui, forse, la spia di quel «fallimento» letterario prima citato, di quell’insoddisfazione esistenziale che alterna il sarcasmo all’ironia, che rifiuta i capri espiatori perché non ci sta a vedersi trasformato in uno di essi. La sua idea di Europa, così estranea al «senso del disonore», così piena di buone letture, di buoni vini, di superbe amanti, di piacevoli luoghi di villeggiatura, è drammaticamente vuota e imbelle di fronte alla catastrofe che si abbatte. Di modo che il suo rimpiangerla finisce con l’assomigliare alle geremiadi dei nobili russi dopo la Rivoluzione d’Ottobre, allorché costretti a fare i tassisti in una più o meno ospitale Parigi, non potevano fare altro che imprecare su quello che era accaduto, senza però capire perché fosse accaduto e fino a quanto anche loro ne fossero responsabili.

Ciò che salva e riscatta l’insieme è la grande capacità di von Rezzori scrittore di ricreare modi di dire e di fare, di descrivere acconciature e mode, di far rivivere profumi e sensazioni di un mondo scomparso e dei detriti che ne presero il posto... Ma resta una sorta di ferita non chiusa, l’aver incrociato il treno della Storia e non esserci salito sopra pensando che la cronaca lo avrebbe lo stesso portato a destinazione.

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