Sull’«Isola dei botulosi» naufraga persino Proust

Sull’«Isola dei botulosi» naufraga persino Proust

È come nel finale di Alla ricerca del tempo perduto di Marcel Proust, dove non solo il Narratore ma il tempo stesso ha compiuto la sua opera inesorabile: «aveva reso quei modelli in modo tale che erano riconoscibili ma non somiglianti, non perché li avesse imbelliti ma perché li aveva invecchiati». Solo che, anziché l’ultima festa dei Guermantes, si chiama L’isola dei famosi, dove l’esibizionismo vince sulla vanità che imporrebbe di non andarci neppure sotto tortura. Infatti in tutte le avventure di naufragi che si rispettino, dal Robinson Crusoe a Lost, sulle isole sfigate si finisce per sfiga e per ulteriore sfiga ci si trovano dei mostri, non ci si va a fare i mostri volontariamente. Soprattutto se la tua professione è apparire splendido splendente, la bella e non la bestia, altrimenti, pardon, ma altro che famoso, sei solo uno sfigato, appunto.
Insomma, ma come: quando andate negli studi televisivi state ore e ore in sala trucco, avete dilapidato patrimoni in botox e acido ialuronico e interventi per tirarvi a destra e a sinistra e gonfiarvi le labbra, e poi vi fate sbattere su una spiaggia per mesi, struccate e puzzolenti come degli albanesi in alto mare? Non ne faccio una questione estetica, figuriamoci, a me le tette vanno bene tutte, naturali o rifatte basta che respirino, ma di gestione economica del proprio patrimonio. Michael Jackson sarà stato pure uno spendaccione, ma non era scemo, con quello che aveva pagato per rinoplastiche e depigmentazioni si riparava con un ombrello, seguendo inconsapevolmente il consiglio di Nietzsche: «insegui pure il sole, ma all’ombra». E Dorian Gray il suo vero volto lo teneva inchiavardato in un armadio, mica se lo appendeva al collo su un lettino di Fregene.
È la tragedia della vecchiaia, d’accordo, e ancora ci viene in pronto soccorso Proust, con una delle sue vivisezioni spietate, in quanto «se si stenta a credere che un morto sia stato vivo e che chi era vivo oggi è morto, è quasi altrettanto difficile, e d’una difficoltà dello stesso genere, concepire che colei che è stata giovane sia vecchia, dal momento che l’aspetto di questa vecchia, giustapposto a quello della giovane, sembra escluderlo a tal punto che è a volta a volta la vecchia, poi la giovane, poi ancora la vecchia ad apparirci come un sogno e non si riesce a credere che possa essere stata quella, che la medesima materia di quella possa, senza rifugiarsi altrove, grazie alle sapienti manipolazioni del tempo, essere diventata questa». Ma questa e quella, la vecchia e la giovane, oggi si confondono da subito perché le manipolazioni, prima del tempo, sono del chirurgo, quindi non sai più se questa ha i vent’anni che dichiara o se si è rifatta peggio della sessantenne che vorrebbe dimostrarne venti, e per non sbagliarti e non apparire ingenuo ne dài sessanta anche a Arianna David e Nina Moric.
Tanto nell’omologazione fisiognomica del botox spiaggiato si assomigliano tutte, come nella suddetta festa dei Guermantes, dove almeno si aveva il buonsenso di presentarsi ben incipriati e imbellettati. Qui Carmen Russo per fortuna ha le tette, altrimenti non la distingueresti da Enzo Paolo Turchi, e per fortuna ci hanno messo Vladimir Luxuria, l’unica rifatta a restare una gran fica, per partito preso. Nella carneficina tropicale non si salvano gli uomini, perché Marco Amleto Belelli senza i paramenti del divino Mago Otelma è un omino triste in mutande, una triste copia di Massimo Boldi senza essere Massimo Boldi, un pavone spennato e senza coda, una lumaca senza guscio, un Malgioglio senza ciuffo.
È il vero sadismo del reality, la nemesi estetica, la vendetta delle casalinghe non famose, la loro rivincita sui mariti arrapati dalle vip. Tutte donne bellissime, per carità, ma appena le inquadrano in ogni tratto istologico-facciale evocano tutta la tragedia della carne e perfino la storia delle avanguardie artistiche: l’una è una via di mezzo tra un Picasso e un Francis Bacon, l’altra un Warhol ripassato nell’Urlo di Munch ripassato nella padella somatica del finale di Rocky che chiama non Adriana ma Nicola Savino.


E soprassediamo sulle prestazioni atletiche, anzi, stendiamo un velo pietoso, meglio ancora un sipario o un sudario pesante: la Marini impigliata a una palafitta più che una sirenetta richiamava una sirena dei pompieri addetti ai cetacei impazziti, e quello strazio pur di non togliersi il pareo e nascondere la ciccia, poverina. Il problema è che la morte ti fa bella, il chirurgo ci prova, talvolta ci riesce, ma sull’isola fate tutti schifo.

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