Leggendo l'intervento pregevole di Maurizio Gregorini e ricordando quello di Sergio Maifredi (di segno opposto in merito alla «fondazione per la cultura»), per parte mia non posso che condividere il primo. Questo detto sono ben lontano dal voler proporre delle conclusioni o dal voler negare alla posizione di Sergio Maifredi una qualche attendibilità nell'orizzonte genovese e ligure della cultura che appare sempre sul «depresso andante». Essendo abituato a non «demonizzare» chicchessia non posso per coerenza attribuire colpe soverchie all'amministrazione di sinistra (si tratti di fondazioni o di assessorati). Eppure c'è qualcosa che non va: si è affermata (lungo quattro decenni) in quel di Genova una mentalità che è sempre meno facile accettare (soprattutto per chi mai ebbe a condividerla). Credo però che anche altri più giovani possano rendersi conto che (almeno in ipotesi, visto che localmente non l'hanno sperimentato) una società civile dinamica riesce a trovare pressoché sempre il modo di esprimere se stessa nelle molteplici forme che tradizionalmente l'arte e la riflessione propongono. Sicuramente queste ultime subiscono forti influenze da (o hanno una radice comune) con gli orientamenti politici e la politica in genere ma è altresì vero che non si può estendere ad esse quelle modalità di programmazione e di controllo che la Sinistra sempre ebbe care (salvo naturalmente quando era all'opposizione, laddove allora si alzavano strilli favolosi a difesa della libertà di espressione in generale e degli artisti organici militanti nelle file della Sinistra stessa).
Nella nostra società non si può fare a meno della «politica culturale» che è poi (limiti e retorica a parte) un sostanziale controllo sulla cultura stessa, con forme di inclusione e di esclusione i cui criteri sono soltanto arbitrari. In questo campo è fin troppo naturale, ormai, sentire ancora l'orma quasi cancellata della cultura dei regimi del passato e avvertirla come stucchevole. La cultura è un campo dove la libertà, come avevano capito bene Goethe e Croce, occorre riconquistarla sempre perché non è mai un'acquisizione definitiva. D'altra parte la cultura, pur così marcatamente individuale, non è sostanza di personalismi e di combriccole, piuttosto espressione inevitabile dei percorsi della società stessa che vengono illuminati e filtrati da personalità originali che, come è noto, sono più o meno rare. Naturalmente si ripropone qui il problema dello stimolo e della generosità (in termini di risorse destinabili) che una determinata società offre alla propria cultura che è uno specchio in cui appare inevitabile guardarsi (e non è detto che certi tratti davvero innovatori riescano a farsi assimilare in modo convincente dagli spettatori non sempre davvero preparati. E fra gli spettatori compaiono petulanti i critici, gli ideologi e i controllori degli scambi, di cui parlò in «Satura» Eugenio Montale). Ho l'impressione che ai giorni nostri gli uomini delle chiese confessionali e laiche (tra quest'ultime la Sinistra ha avuto il maggior rilievo) siano disadatti a parlare di cultura (poiché essi sottintendono sempre la politica culturale, cioè il controllo sulle espressioni di cultura). Genova ha assunto nel corso del tempo uno stile «ancien régime» quello che a suo tempo così soporifero (in epoca Risorgimentale) Giuseppe Giusti satireggiò chiamando appunto il granduca «toscano Morfeo». Era, allora come oggi «arte politica» (di controllo) cui doveva e deve rispondere la società civile con la sua creatività. Naturalmente (e qui Gregorini ha ragione, come nel resto) per svegliare la città un cambio di guida politica (non effimero) andrebbe provato. Potrebbe risultare un rimedio efficace.
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