di Pier Guido Quartero
e Amedeo Ronteuroli
Nel linguaggio corrente, si usano termini come «bandito», «fuorilegge», «brigante» come se fossero sinonimi. In realtà ognuna di queste espressioni nasce con un proprio significato specifico che va a coprire aree non esattamente coincidenti tra di loro: così il «bandito» è, a rigore, colui che è stato scacciato dalla comunità, il «fuorilegge» è colui che, messo al bando o no, vive, per costrizione o per scelta, al di fuori della legge, il «brigante» (termine derivante dal francese e introdotto in Italia proprio dai francesi per indicare spregiativamente i partecipanti alla resistenza meridionale favorevole ai Borboni) è infine quel particolare tipo di fuorilegge che si caratterizza per la propensione ad assumere atteggiamenti violenti (se ci pensate, mentre è facile pensare ad un «bandito gentiluomo», di «briganti gentiluomini» nessuno ha mai sentito parlare...).
Da approfondimenti rispetto al significato originale delle parole possono sortire anche delle sorprese. Così, mentre in prima battuta viene spontaneo associare il termine «bandito» alla parola «banda» (qualcuno si ricorda di Stanlio e Ollio? «Ohhhhh, Stenlio!! Una benda di benditi!!!»), i due termini, pur ricollegandosi entrambi all'azione di bandire, in realtà ne rispecchiano due aspetti contrapposti, collegandosi il primo al soggetto passivo di colui che subisce il bando e il secondo alla figura del banditore (con relativo accompagnamento di trombe e tamburi). Un'origine abbastanza caratteristica è ipotizzabile anche per un altro termine attiguo, oggi meno usuale: i «masnadieri» di schilleriana (e weberiana) memoria dovrebbero derivare il proprio nome dallo spagnolo «mas nada» (più nulla), ad indicare persone che non hanno più nulla da perdere tranne la vita.
Fatta questa prima, noiosa premessa, il quadro che intendiamo tratteggiare qui riguarda essenzialmente persone di briganti che tra il XIX e il XX secolo hanno operato (da sole o, più spesso, insieme ad altre) con grassazioni e violenze in quelle aree del territorio ligure che, per le difficoltà di accesso, erano più o meno sottratte alle possibilità di controllo dell'Autorità costituita. Tutto ciò a prescindere da una possibile connotazione «sociale» in stile Passator Cortese, che nasce da una visione romantica più vicina alla leggenda che alla realtà.
Una seconda premessa, forse un po meno noiosa, riguarda la connotazione dell'area ligure come possibile ambito di sviluppo del brigantaggio. Sotto questo profilo, se la configurazione geografica di terra di frontiera montagnosa e ricoperta da boschi e foreste costituiva un habitat favorevole, nel periodo medioevale la presenza di una forte città stato orientata al commercio internazionale aveva costituito elemento di forte contrasto ad un tale sviluppo, essendo il controllo delle vie di comunicazione circostanti fondamentale per l'economia della Superba.
Ciò non significa che attività di brigantaggio non fiorissero in Liguria, ma ciò avveniva assai più sul mare che sulla terraferma. Intanto rientrava negli usi di mare a quei tempi che le spedizioni commerciali integrassero all'occasione il frutto delle proprie operazioni legittime con azioni piratesche a danno di imbarcazioni incontrate sulla propria rotta. Si arrivava al punto che neppure le navi battenti la bandiera di San Giorgio venivano risparmiate dai concittadini. Famosi in questo senso i fratelli Gattilusio della Maona di Mitilene, che nel XV secolo diedero alla Repubblica un bel po di grattacapi (e peraltro è opportuno ricordare che donne della famiglia Gattilusio andarono spose agli imperatori di Bisanzio...). Non molto tempo dopo un altro personaggio, Paolo Fregoso, riuscì nel corso della propria vita ad alternare i ruoli di Doge, corsaro e pirata e Vescovo-Conte... I punti della costa ligure più infestati dai pirati erano nell'area di Monaco (da dove i Grimaldi, trasferitisi definitivamente dopo l'avvento del Dogato avvenuto con Simone Boccanegra, non disdegnavano di lanciare le loro fuste verso le imbarcazioni che praticavano il piccolo cabotaggio tra Genova ed Aigues Mortes) e in quella dove oggi sorge La Spezia: Porto Venere era a quei tempi un noto centro di raccolta, scambio e smistamento della refurtiva derivante dalle spedizioni piratesche. Del resto, chi la fa l'aspetti: sia le coste che le spedizioni commerciali della Repubblica erano a loro volta soggette ad azioni analoghe da parte altrui, e soprattutto dei saraceni in un primo tempo e dei turchi poi. Il tutto con cambi di fronte relativamente frequenti: qui vale la pena di ricordare quel membro della famiglia Cicala, poi cantato da Fabrizio De André, che divenne ammiraglio della flotta della mezzaluna con il nome di Sinan Capudan Pascià.
Sul territorio genovese, invece, l'esercizio di attività brigantesche era ridotto ai minimi termini, a causa del controllo attento delle vie di comunicazione necessario sia per il trasferimento di merci oltre i valichi appenninici, vigilati, oltre che dalla Repubblica, dalle famiglie Spinola (buona parte dell'area delloltre-Giovo apparteneva al c.d. Stato Spinolino) e Fieschi, sia per garantire quel monopolio del sale che costituì fino al settecento una delle più cospicue fonti di entrata della Superba. Non risultano quindi storicamente, sul territorio, attività di brigantaggio organizzato, al di là di un endemico piccolo contrabbando e del supporto logistico a ricercati che volessero sfuggire oltre confine. Questo, se si pensa ad un brigantaggio derivante da disagio sociale, e quindi espressione dei ceti popolari. Un brigantaggio di diversa origine, finalizzato ad impinguare le casse di signorotti locali, ha sempre avuto, ieri come oggi, i suoi ampi spazi. Un episodio esemplare in questo senso avvenne nel 1416 in Val di Vara, vicino a Brugnato: Oderico Biassa, figlio di un nobile spezzino, Commissario delle Cinque Terre per conto della Repubblica di Genova, venne aggredito ed ucciso da quattordici banditi mentre stava recandosi a Zignago per indagare sulla morte di alcuni pellegrini della via Romea, uccisi e depredati poco tempo prima. A capeggiare la banda era il Marchese di Villafranca, Gabriello Malaspina, che voleva così evitare che venisse accertata la sua disdicevole abitudine di spogliare i pellegrini di passaggio sulle sue terre. Val la pena di prender nota che la Repubblica, seccatissima per quanto avvenuto, mandò a punire i Malaspina un Battista di Campo Fregoso (dello stesso sangue di quel Paolo, vescovo, doge e pirata di cui si è parlato sopra), che ripulì la Valle di Vara con grandissimo zelo.
Va detto, peraltro, che questa parte del territorio ligure ambientata nel ponente, per la sua conformazione selvaggia, è risultata storicamente la più favorevole al brigantaggio: un altro episodio riportato dalle cronache riguarda il 1659, anno in cui venne arrestata una banda che infestava la zona e aveva il proprio covo nell'osteria di Bozzolo, una frazione di Brugnato. La parte curiosa della storia riguarda ciò che accadde successivamente all'arresto. Infatti, nel numero delle persone assicurate alla giustizia non erano compresi i capi della banda (due fratelli di nome Giovanni Battista e Antonio Arbasetti), che mascheravano il proprio ruolo dietro quello di esercenti dell'osteria. Le pratiche criminali pertanto proseguirono, finché la popolazione locale, stanca di subirle, provvide per proprio conto alla cattura dei due delinquenti, che furono consegnati alle autorità. A questo punto i due fratelli, per evitare una sicura condanna all'impiccagione da parte del tribunale di Levanto, tentarono di salvarsi eccependo il proprio status di «chierici», in quanto da bambini avevano ricevuto la tonsura e l'imposizione della cotta, con un rito rimasto in vita fino al Concilio Vaticano II. Si ricorda, ad onore del Vescovo di Brugnato Giovanni Battista Paggi, che questi, dopo aver chiesto in un primo tempo al Senato genovese l'assoggettamento dei due alla propria giurisdizione, ad una successiva verifica dei fatti si rese conto della vita realmente condotta dagli Arbasetti e ritenne, anche per l'abbandono avvenuto da tempo da parte di questi delle pratiche formali proprie dello status che essi accampavano, di non poterli più considerare come dei chierici. Alla fine i due briganti penzolarono dalla forca che si ergeva sulle alture che dominano Levanto.
Bande di professionisti delle dimensioni di quella di Brugnato dovevano essere abbastanza rare. Più facilmente gli atti di brigantaggio, anche in altre parti della Liguria, erano commessi da contadini con la pancia troppo vuota. A quest'ultima tipologia vanno probabilmente ascritti i protagonisti del western casereccio che raccontiamo nelle righe che seguono, tratto dalle filze criminali del Castello di Torriglia.
Nel Maggio 1685, alcuni banditi mascherati (quattro o cinque, a seconda delle testimonianze) armati di archibugi assalirono presso Barbagelata un gruppo di mulattieri originari della Val Trebbia, in aiuto dei quali, dopo un primo scambio di colpi d'arma da fuoco, sopravvennero altri mulattieri piacentini che, come i primi, stavano tornando dal mercato del grano di Monleone. Sfortunatamente, un po per la concitazione e un po per l'oscurità della sera ormai incombente, uno dei soccorritori fu ferito dagli assaliti. Malgrado ciò l'inseguimento dei briganti, ormai in fuga a causa del numero preponderante degli avversari, che disponevano anche di cani da caccia, proseguì con discreto successo, tanto che alla fine due di loro furono catturati a Sbarbari, in Val d'Aveto, e riconosciuti come abitanti di Caorsi. Rinchiusi nel Castello di Santo Stefano, sotto la giurisdizione del Marchese Doria, furono condannati a cinque anni di esilio.
Avvicinandoci ai giorni nostri, incontriamo su un territorio confinante con la Val Trebbia, la Val Bisagno, una figura di brigante classico: Giuseppe «Pipin» Musso, detto «o Diao» (il Diavolo). Giovane contadino originario della Fontanabuona, vissuto tra fine settecento e primi anni dell'ottocento, il Diavolo guidava una banda che rapinava ed uccideva con brutalità, terrorizzando gli abitanti della valle. Uno dei punti d'incontro della banda era a Corte Lambruschini. All'apice della carriera, incuteva un tale timore che poté permettersi di guidare la processione della Madonna del Carmine, a Molassana, armato di tutto punto ma con una candela in mano. Altro aneddoto che lo riguarda si riferisce alla tutela legale per il proprio cognato, prigioniero e sottoposto a giudizio, da lui ottenuta promettendo all'Avv. Bartolomeo Mangini (poi divenuto noto come «l'Avvocato dei Briganti») di riservargli lo stesso trattamento che le Autorità avrebbero dedicato all'imputato. Il Mangini riuscì, in qualche modo, ad aver salva la vita del proprio indesiderato cliente, e ne ebbe in cambio che da allora, nello stesso punto dove aveva avuto il primo incontro col Diavolo, trovò sempre ad attenderlo una scorta che gli consentì di percorrere la strada fino a Fontanarossa, suo paese d'origine, senza alcun disturbo. Si era verso il 1805: anni di dominazione napoleonica. Il nostro brigante si pose al servizio degli inglesi e così, un po per la caccia che gli davano i francesi, un po perché la popolazione locale era stufa di sopportare i suoi soprusi, pensò bene di trasferirsi altrove. A Trieste, dove progettava di poter rilanciare la propria carriera, fu invece catturato in breve tempo e riportato a Genova, dove fu processato e condannato a morte. L'esecuzione, che affrontò coraggiosamente dopo aver voluto - malgrado il soprannome - i sacramenti, si tenne in Sant'Agata, vicino all'Oratorio delle Olivette, alle ore 11 del 19 Novembre 1805. Pipin Musso aveva allora 26 anni.
Verso la fine dell'ottocento, un altro delinquente ebbe gli onori della cronaca. Operava anch'egli in un'area alle spalle di Genova, appena più a Levante: si trattava delle colline di Quezzi ed Apparizione e della zona di Pianderlino. Lo Sbirretto, questo era il nomignolo che il pubblico gli aveva attribuito, non era un violento, e il suo «core business» era incentrato sui furti. Divenne popolare dopo che, nel 1883, la «Domenica del Corriere» e la «Tribuna illustrata» ne ebbero pubblicato il ritratto (e ciò malgrado non si sia mai giunti ad un formale accertamento della sua reale identità). Il suo soprannome veniva anche utilizzato all'interno di strofette utilizzate dalla gente per prendere in giro le autorità. Per colmo dell'irrisione, quando l'aria cominciò a farsi troppo calda lo Sbirretto ebbe l'abilità di scomparire senza lasciar traccia, cosicché nessuno ha mai saputo chi si celasse dietro a questo soprannome.
Nei primi decenni del XX secolo, un nuovo nome ha gli onori della cronaca nera. E' originario di Novi Ligure, ma il ponente della nostra regione è l'area dove opera in prevalenza, anche se la sua epopea lo porterà, oltre che in Piemonte e Lombardia, anche in Francia, Belgio e Germania. Sante Decimo Pollastro nasce nel 1899 e dimostra subito un'indole ribelle. Sono anni di sogni di rinnovamento, in cui ci si può illudere di cambiare il mondo. L'incontro con il poeta anarchico Renzo Novatore orienta in modo definitivo la formazione ideologica di Sante, che tra il 1920 e il 1927 guiderà la sua banda ad una serie di imprese criminali con qualche connotazione politico sociale, solo parzialmente contraddetta dall'amore per il lusso e le donne. Di lui è nota anche l'amicizia verso il compaesano Girardengo, cantata da De Gregori nella canzone «Il bandito e il campione». Catturato a Parigi per il tradimento di Mariette, una delle sue donnine, verrà condannato ad una lunga pena ed infine graziato. Tornerà quindi nella sua Novi dove vivrà fino al 1979, dopo aver esercitato per alcuni anni il commercio ambulante in bicicletta.
E finalmente arriviamo al Bracco. Abbiamo già visto nella prima parte di questo lavoro come il levante ligure si sia configurato, fin dal medio evo, come una zona assai propizia al brigantaggio in ogni sua forma. Ciò è tanto vero che si può dire che le ultime figure di briganti nel senso tradizionale del termine si sono mostrate proprio in quest'area negli anni disordinati del primo dopoguerra, tra il 1946 e il 1948.
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