Sulle tracce degli Hippy dalla Turchia all'Iran

Prosegue il viaggio dell'inviato del Giornale sulle tracce dei pellegrinaggi della beat generation. Dalla Turchia all'Iran, da quello che potrebbe diventare il lembo estremo dell'Unione Europea alla più islamica delle repubbliche

Sulle tracce degli Hippy dalla Turchia all'Iran

dal nostro inviato Maku (Iran)

Non tutti i confini sono uguali. E quello che potrebbe diventare il confine tra Unione Europea e Iran è meno uguale degli altri. Dogubayazit, Turchia nord-orientale. Un paese di 36mila abitanti a 35 chilometri dall'Iran è il trampolino verso la Persia. Arrivarci da Van, su un malconcio furgoncino Mercedes pieno all'inverosimile, arrampicandosi tra le montagne imbiancate, tra posti di blocco dell'esercito turco e nubi scure che coprono la sagoma dell'Ararat, ha già un certo retrogusto clandestino. Se poi tra le kebab house e le pasticcerie di Dogu si aggirano persone baffute con cappelli di pelliccia che ti propongono di cambiare in nero le lire turche con i rials iraniani con un'aria insieme grave e complice, manco stessero smerciando una partita di uranio, allora il quadro è completo, con il tocco finale di una tormenta di neve primaverile che non guasta mai. Nella piazza del paese una freccia gialla indica una direzione e recita, laconica: Iran. Poco più avanti partono i minibus per il confine. Più malconci ancora, e se possibile più strapieni. Persone, pellicce, rotoli di moquette, sacchi di merci. E prima di lasciare il paese, il vecchio Ford Transit fa una sosta al forno per caricare il pane, avvolto in carta di giornale. Sulla strada per il confine sembra di essere in Siberia. Le 5 corsie sono ghiacciate e coperte di neve, e tutti viaggiano sulle uniche due in cui l'asfalto è ancora in buone condizioni, zigzagando per evitare le buche e i tir che arrivano dalla direzione opposta. Un paio di contadini, tra cui quello che trasporta la moquette, scendono prima del confine. Un cartello annuncia Gurbulak, che sarebbe l'ultimo villaggio turco, ma quando si apre il portellone scorrevole l'unica cosa che si vede attraverso la tormenta è un grande cancello rosso con le insegne turche. È solo il primo controllo dei passaporti nell'ufficio di frontiera, il confine è più avanti. C'è l'ennesimo pullmino che porta fin lì, e almeno la fila per il timbro d'uscita è al coperto, sotto una pensilina. L'Iran ora è lontano due cancelli appena. Prima che si apra quello turco c'è un terzo controllo passaporti, forse un omaggio alla burocrazia dell'Ue poi, sempre sotto la neve, ecco un varco. Due passi per restare incastrati tra due nazioni, e ci vuole qualche secondo prima che l'impiegato iraniano si accorga che c'è qualcuno che bussa da occidente. Sorride, controlla il visto e con un cenno della mano indica l'edificio alle sue spalle. Moderno, pulito, efficiente. Il posto più “europeo” dell'intera giornata. Qui un funzionario si occupa dell'accoglienza offrendo informazioni su cambio valuta e alberghi in perfetto inglese, mentre un suo collega sbriga le formalità con il visto. E meno che una formalità è anche il controllo doganale: gli zaini nemmeno scendono dalla schiena, il responsabile si limita a un “welcome” e a un largo sorriso. E ci vuole l'onnipresente, severa faccia di Khomeini per ricordare che questo è l'Iran, il Paese dove per legge tutte le donne sopra i sette anni devono coprirsi i capelli, dove marito e moglie sugli autobus urbani viaggiano separati, dove il presidente lancia ogni giorno anatemi contro Israele e gli Usa, dove la libertà non è parte del kit essenziale che i cittadini ricevono alla nascita, ma qualcosa che chi è nato dopo il 1979 non ha mai potuto nemmeno assaggiare. Eppure proprio i più giovani la desiderano, orgogliosi della loro patria ma insofferenti verso il suo governo, per quanto sia l'unico che hanno conosciuto.

La proverbiale cortesia di questo popolo si amplifica con la voglia di confrontarsi con l'esterno, quasi ovunque è impossibile sfuggire al calore ospitale degli iraniani, pronti a portare uno sconosciuto straniero a casa propria, pronti ad addolorarsi per la “cattiva stampa” di cui gode il loro Paese. Eppure, apparentemente, solo pazienti. Non rassegnati.

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