«Basta quote rosa, penalizzano le donne». Il contrordine, imprevedibilmente in arrivo proprio dalla Svezia, la dice lunga su come possano andare le cose in questo sempre più schizofrenico mondo. Cioè all’incontrario. Era soltanto il 2003, infatti, quando lungo le sponde dell’impronunciabile baia di Riddarfjärden, là dove si specchia Stoccolma, rimbalzò entusiastico un grido di vittoria. Al 100% femminile. Festeggiavano, le vichinghe, l’approvazione della legge che da allora avrebbe destinato loro, nelle iscrizioni all’università, una rosea quota del 50%.
Quel fifty-fifty stabilito a tavolino giungeva a coronamento di una battaglia per le pari opportunità che aveva visto in prima fila le bionde erinni del neo-partito Feministiskt Iniziative, le stesse che nel loro programma politico avevano messo giù senza vergogna richieste da far sorridere, se non ci fosse stato in realtà da piangere. Come per esempio la pretesa di obbligare i genitori a dare dei «provvisori» nomi neutri a tutti i nuovi nati; di modo tale che questi, una volta raggiunta la maggiore età, avrebbero poi potuto decidere a quale genere appartenere. O ancora, lo stabilire per legge che nessuna donna dovesse più percorrere oltre 15 minuti a piedi per raggiungere un servizio essenziale. Quanto agli uomini, ancorché anziani o disabili - almeno così si poteva presumere - che si arrangiassero.
Ora pare invece che nella Svezia del 2010, l’altra metà del cielo non voglia essere più anche l’altra metà di chi si laurea. Quantomeno non vuole esserlo più per legge. Ma unicamente per merito. Succede infatti che in qualche facoltà, specie in quelle più ambìte perché destinate a produrre professionisti di alto livello, la forzosa parità percentuale si sia trasformata di fatto in una penalizzazione delle studentesse. Questo dal momento che le ragazze, anche lì più brave, studiose e determinate dei coetanei maschi, si vedono spesso rifiutare l’iscrizione in quanto più numerose rispetto alla quota di parità fissata per legge.
Ci sono anche i numeri. Numeri ufficiali. Dai quali risulta che nel 2008, per colpa della suddetta legge, ben 5.400 studenti svedesi hanno dovuto rinunciare alla facoltà che avrebbero voluto frequentare. E il 95% di quei 5.400 vistisi respinti già alla linea di partenza della loro gara per la vita, erano femmine. Un’evidente distorsione che non poteva non avere uno strascico giudiziario. Lo dimostra la recente sentenza di un tribunale di Stoccolma che ha dato ragione a 44 ragazze escluse dall’Università proprio in quanto «eccedenti» la quota massima del 50%.
«Questo sistema finisce in realtà per discriminare le studentesse. Per questo vogliamo abolirlo», si è lasciato andare - forse anche malcelatamente soddisfatto - il ministro (maschio) dell’Istruzione superiore, Tobias Krantz. Che in un’intervista al quotidiano Dagens Nyheter, ha così fatto propria un’opinione ormai radicata nelle stesse autorità accademiche.
L’ubriacatura femminista di qualche anno fa aveva evidentemente fatto perdere di vista ai legislatori svedesi un’inconfutabile quanto banalissima verità. Ovvero che qualsivoglia tentativo di inseguire condizioni di eguaglianza sociale attraverso l’imposizione delle medesime con leggi d’impronta statalista, si è tradotto quasi sempre e dovunque in un fallimento. Peggio, in un’ingiustizia infinitamente peggiore (era accaduto anche negli Usa con la Affirmative action voluta a favore dei neri) allo stato di fatto al quale voleva porre rimedio. Mentre un ben più liberale laissez faire finisce invece col produrre risultati decisamente migliori.
Saggia valutazione del tutto sfuggita - forse in quanto saggia - all’Unione europea.
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