Stefano Zurlo
da Milano
Chiede perdono ai risparmiatori. Ma, soprattutto, va allattacco delle banche. Lautodifesa di Calisto Tanzi si trasforma in una requisitoria contro gli istituti di credito che fino allultimo diedero soldi alla Parmalat, seduta su una voragine di 14 miliardi di euro. Parla per quaranta minuti il cavalier Tanzi, leggendo sedici pagine nellaula affollata da giornalisti e avvocati. «Non stupitevi - afferma lex patron del colosso di Collecchio - se io in serena coscienza, affermo che soltanto mesi dopo il mio arresto, e addirittura in alcuni casi, nei mesi scorsi, ho compreso le reali finalità, lo scopo, di molteplici operazioni finanziarie poste in atto da Parmalat sotto la guida e il consiglio di istituti di credito e banche di affari di respiro internazionale».
Ecco, larringa di Tanzi è già delineata in quelle prime righe: lui, il padrone dellottavo gruppo industriale italiano, non sapeva. O meglio, si fidava dei consigli, interessati, dei grandi banchieri italiani e stranieri. Loro spingevano Parmalat giù per un precipizio senza fondo: Parmalat ha «vissuto un rapporto drogato con gran parte degli istituti di credito con cui si è operato: Parmalat non ha infatti mai avuto reali problemi di accesso al credito. Erano gli istituti di credito stessi e le banche di affari quasi a inseguirla, ad assicurare al gruppo tutto il denaro che occorreva, malgrado i bilanci non fossero il massimo della trasparenza, e malgrado si facesse ricorso continuo al credito, pur affermando di possedere liquidità consistenti».
Certo, lex numero uno riconosce «che non si può essere imprenditori a un livello quale quello che Parmalat aveva raggiunto, senza saper governare non solo la gestione tecnica, industriale, commerciale, ma anche laspetto finanziario». Meglio tardi che mai. Ma subito dopo Tanzi afferra un primo salvagente: «Ho parlato di rapporto drogato perché il continuo offrire finanziamenti da parte delle banche è stato da me interpretato come un atto di fiducia nel mio modo di essere imprenditore». Poi, sempre aggrappandosi alla propria presunta buonafede, allunga una sciabolata: «Ho creduto ciò in quanto i miei stessi finanziatori contribuivano o addirittura molte volte erano promotori delloccultamento al mercato della reale situazione finanziaria del gruppo». Questa situazione, a quanto pare, durava dalla fine degli anni Ottanta. Già allora Parmalat era «in gravi difficoltà finanziarie» e già allora «venne salvata» fornendo «la prima informazione errata o incompleta al mercato».
Nel 1990 arriva la quotazione in Borsa. Poteva essere loccasione per svoltare e invece dei «circa 300 miliardi raccolti sul mercato solo poco più di un quarto rimase nelle casse della società». Il resto servì per «ripagare i debiti verso gli istituti di credito». Ma il quadro non cambiò. E nel 95 Chase Manhattan Bank propose lapertura di un nuovo canale di finanziamento: «Lemissione dei bond». Unidea prontamente accolta a Collecchio. «Da questo momento in poi è iniziata una vera e propria catena di santAntonio. Si accendevano nuovi finanziamenti ricorrendo al mercato: bond o private placement, per pagare finanziamenti in scadenza». È forse il momento più tagliente della requisitoria del principale imputato del default: «I finanziamenti concessi dagli istituti di credito avvenivano con modalità che consentivano ai finanziatori di incassare compensi per provvigioni, per interessi, per fee, che certamente erano superiori a quelli che avrebbero dovuto incassare alla luce dei bilanci e del rating concesso da Standard & Poors». I grandi istituti di credito, insomma, erano complici. Anzi erano loro a guidare le danze in cabina di regia: «Non analizzavano la possibilità o meno che il mercato acquistasse le obbligazioni emesse da Parmalat, fornendo il denaro che avrebbe consentito il pagamento di fee, di interessi, di provvigioni e di debiti scaduti, quindi di guadagnare con pochi rischi».
Ce nè per tutti, in particolare per Bank of America.
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