Indro Montanelli era convinto che dopo la sua morte nessuno si sarebbe ricordato di lui. Previsione sbagliata. Egli è rimasto bene impresso nella nostra memoria. Come ci si può dimenticare di un uomo capace di attraversare sulla cresta dell’onda settant’anni di vita e di storia senza mai finire sott’acqua, sempre sostenuto dalla fortuna? Oddio, la fortuna non basta a spiegare il suo duraturo successo. Bisogna riconoscere a Indro la bravura e l’abilità.
Soprattutto l’abilità tecnica: non era soltanto un grande giornalista; era anche un grande scrittore, un talento di prim’ordine aiutato dal fiuto e dalla capacità di adattarsi ai mutevoli costumi della politica.
Illudeva se stesso e i suoi lettori di essere sempre contro le mode culturali, quando invece le anticipava e le cavalcava, quindi puntualmente le abbandonava un istante prima che si tramutassero in conformismo. Sono trascorsi dieci anni dal giorno in cui, ultranovantenne, se ne andò all’altro mondo, stanco di questo, e siamo ancora qui a parlare di lui con affetto e ammirazione. Se fosse vivo, e potesse leggere ciò che scriviamo di lui, non sarebbe pienamente soddisfatto: detestava le lodi quanto le critiche, perché considerava scontate le prime e ingiuste le seconde. Sapeva di essere il numero uno e il solo fatto di venir messo in discussione, nel bene e nel male, lo irritava. Una divinità non si giudica, si accetta.
E si
adora. Nei momenti in cui gli veniva meno questa certezza, o non bastava
a rendergli la vita sopportabile, cadeva in depressione; spariva per
lunghi periodi durante i quali era più lucido del solito: comprendeva
l’inutilità dell’esistenza e avvertiva l’insufficienza della vanità come
surrogato della speranza. Ecco, questo era il Montanelli che ammiravo:
una persona fragile che aveva adottato l’abito del cinico per esigenze
terapeutiche. Chi è troppo sensibile o si rassegna a piangere o si difende dalla realtà guardandola di sbieco.
La sua carriera è troppo nota e non vale la pena di riassumerla qui. I nostri lettori sono consapevoli che fu lui a fondare Il Giornale .
Lo fece nel 1974, tempi bui per la Repubblica. Allora dominava la
sinistra violenta; il virus comunista e rivoluzionario aveva
contagiato i giovani, e i giovani avevano contagiato i genitori.
L’Italia sembrava impazzita.Voltate le spalle al boom economico, la
gente puntava a impadronirsi della cosa pubblica, delle
fabbriche, delle scuole, dell’università, di tutto. Come? Con la
forza, dato che le vie democratiche sono tortuose e spesso sbarrate. Le
idee guida erano quelle dell’utopia. E avanti con le assemblee, i
cortei, le manifestazioni, gli scontri con la polizia.
Anche la stampa fu influenzata dal clima generale. E il Corriere della Sera ,
di cui Montanelli era un pezzo da novanta, divenne una succursale del
Pci. Indro intuì che il Paese si sarebbe avvitato se non si fosse
levata in fretta una voce dissonante che invitasse almeno l’élite a
ragionare. E così fondò questo giornale. Che molti considerarono una
follia mista a velleitarismo. Ormai, dicevano, il vecchio mondo borghese
è tramontato. Il sistema della democrazia rappresentativa è guasto,
serve il socialismo, che è una macchina imperfetta, per adesso, ma si
può mettere a punto.
Montanelli seguì la propria intuizione e, senza
dare retta ai numerosi detrattori, varò una navicella di carta in un
mare in burrasca. Gliene dissero di ogni colore. I colleghi del Corriere della Sera
lo snobbavano. Quelli dell’ Unità gli davano del fascista, del
qualunquista. I più generosi gli attribuivano la leadership della
cosiddetta Maggioranza silenziosa. Le Brigate rosse lo gambizzarono a
Milano, vicino a piazza Cavour, a rivoltellate.
Chi si faceva sorprendere col Giornale in tasca veniva sputacchiato, se gli andava bene, o sprangato, se gli andava male.
Passarono gli anni, una decina, e si scoprì che Montanelli ci aveva azzeccato. Vinse lui. Il terrorismo fu sconfitto, il ribellismo giovanile scemò, il comunismo si avviò al fallimento. Il primo a stupirsi del proprio trionfo fu lui, Indro. Il quale, ricevute tante medaglie al valor democratico, si sedette e campò di rendita. Il Corriere tornò su posizioni moderate, più consone alla propria tradizione, e Il Giornale, esaurita la sua missione, accusò qualche sintomo di stanchezza.
Infatti non colse i mutamenti sociali e politici della fine anni
Ottanta e dell’inizio dei Novanta: il declino della Prima Repubblica, la
fine dell’Unione Sovietica e satelliti vari, i vagiti della Lega
bossiana e le avvisaglie di Tangentopoli.
Un bel giorno Berlusconi, davanti al vuoto lasciato dalla defunta Democrazia cristiana, dai socialisti eccetera, si risolse - come lui stesso disse - a scendere in campo. E fece una richiesta a Montanelli: mi dai una mano? Risposta: neanche per sogno. Mi scuso per la sintesi brutale dei fatti. Ma di questo si trattò. Il Cavaliere era il padrone del Giornale . Per 17 anni ne ripianò i conti deficitari senza mettere becco nella gestione, senza disturbare il manovratore, cioè il direttore e fondatore. Cosicché si sentì in diritto di bussare alla porta di Indro. Posso entrare? No, no e poi no.
Il sodalizio fra i due si ruppe. Montanelli non fu
licenziato. Abbandonò spontaneamente il timone, offeso, perché a forza
di tenerlo stretto si era persuaso che fosse suo. Invece l’editore era
Berlusconi. Il quale, deluso per il mancato appoggio del Grande
Vecchio, si rivolse a me: vuoi tu prendere Il Giornale?
Ed io, benché dirigessi L’Indipendente, quotidiano che andava meglio del concorrente,
accettai. Perché? Perché la pensavo come Berlusconi prima che
Berlusconi la pensasse come me. Confesso: non è facile guidare un
quotidiano di proprietà della famiglia del premier. Però ci ho provato
lo stesso con alterne fortune.
In ogni caso, mentre Indro con la sua nuova creatura, La Voce , saltò per aria in dodici mesi, noi del Giornale ,
pur con un direttore piccolo piccolo come me, raddoppiammo la vendita
delle copie. Merito nostro? Nossignori. Merito dei lettori che
premiarono i nostri sforzi di continuare a servirli, offrendo loro ciò
che chiedevano.
Non appena Montanelli si allontanò da Berlusconi,
venne portato in trionfo dalla sinistra, la stessa sinistra che lo
aveva odiato per decenni e decenni. E lui, lusingato - o semplicemente
un po’ stordito dagli avvenimenti - la ripagò dicendo di Silvio, colui
che gli aveva sanato i debiti senza fiatare, peste e corna.
Cioè
l’esatto contrario di quanto aveva dichiarato in precedenza: «È il
migliore di tutti». Non è stata una nobile conclusione. Non importa.
Montanelli rimane un maestro, ma era pur sempre un uomo. E gli uomini
sono fragili e cinici. Talvolta ingrati.
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