TAVERNA MORIGGI Quando Mario Soldati veniva a mangiar qui

La doppia «g» del nome del locale è un errore di trascrizione comunale Da deposito di carrozze della casa patrizia, nel 1900 diventò osteria

Basta il nome di «Taverna» a riportare alla mente memorie lontane, luoghi legati a momenti spensierati, amici intenti a sorseggiare calici di vino, a giocare a carte, a raccontarsi episodi di vita e innamorati seduti ad un tavolo appartato o che silenziosamente si dicono addio cercando di nascondere le lacrime dietro il bicchiere sollevato dinnanzi agli occhi. Non sono impressioni retoriche, dettate da un romanticismo fuori luogo, ma pensieri che vengono istintivamente in mente appena si entra nella Taverna Moriggi, un locale unico, un piccolo gioiello in cui, guardando gli arredi novecenteschi - l'imponente lampadario in ferro battuto, le volte nere, il soffitto a cassettoni di legno, gli archi in stile gotico, le sedie di paglia - si avverte l'atmosfera della Milano di una volta, il calore di un angolo del passato. Del resto la Taverna Moriggi è probabilmente la bottega storica milanese insignita del maggior numero di riconoscimenti: dal Comune, alla Regione, alla Camera di Commercio.
Situata nel cuore della silenziosa, vecchia Milano - via Morigi, (la doppia «g» del nome del locale è dovuto ad un errore di trascrizione comunale), via Cappuccio, via Bernardino Luini, piazza Sant'Ambrogio e l'università Cattolica - in un edificio nobiliare del '600, ora classificato dalle Belle arti come «monumento nazionale» e per anni amministrato del conte Radice Fossati, la storia della Taverna Moriggi risale al 1900, quando da deposito di carrozze della casa patrizia, divenne osteria. Risparmiata miracolosamente durante i bombardamenti della seconda guerra mondiale, che colpirono gli edifici adiacenti, e salvata dalla demolizione programmata nel piano urbanistico cittadino del dopoguerra (in seguito modificato) che prevedeva la costruzione di una «racchetta» per la circonvallazione nel centro cittadino, la taverna Moriggi fu gestita da due coniugi di Novara sui quali le notizie scarseggiano, fino all'arrivo nel 1959 del toscano Gino Liopi che subentrò e assieme alla moglie e dette al locale l'inconfondibile impronta per la quale divenne è divenuta famosa.
«Mio padre era un uomo dal temperamento arguto e gioviale, capace di ribadire le sue idee. Gli volevano bene tutti. Apprezzavano la sua simpatia. Un amico per i clienti, fra i quali Mario Soldati che, abitando in via Morigi, lo veniva a trovare tutti i giorni e con il quale dibatteva animosamente davanti a un bicchiere di vino e a un piatto di pasta e fagioli», racconta Roberto, tra scaffali di bottiglie di vecchia data di Barolo, Barbera, Barbaresco, Brunello di Montalcino, che dal 1986, anno in cui morì il padre, è rimasto assieme alla madre, a gestisce il locale.
Cosa aveva portato Gino alla Taverna Moriggi?
«Papà era passato attraverso svariate esperienze. Nato a Roma, andò in Toscana a occuparsi di bonifica dei campi minati. Divenuto sommelier, tenne dei corsi a Chianciano, presso la scuola alberghiera. A Siena conobbe mia madre e la sposò, mettendosi in seguito a lavorare al Nannini, il ristorante più rinomato della città. Nel 1958 venne a Milano per dirigere il Biffi Scala in Galleria, poi lavorò alle Cantine Dal Verme e infine acquistò la gestione della taverna poiché i vecchi proprietari erano stanchi di stare qui».
Si beveva allegramente il vino in calice, si gustavano pane, salame e formaggi, si giocava a carte...
«Le abitudini - continua Roberto, una persona di affabilità toscana che ama dare del tu a tutti - sono cambiate. Niente più scopa o scala quaranta, ma è rimasto il vino, da assaporare, come lei ha ricordato, con il prosciutto, il salame e i formaggi e che offriamo durante le happy hour. Di nuovo c'è la cucina. Per pranzo e cena prepariamo piatti caldi. Ho dovuto modificare gli orari. Quando c'era mio padre, la Taverna rimaneva aperta dalle sette del mattino fino a sera inoltrata, ora abbiamo due fasce lavorative. Da mezzogiorno alle tre e dalle sei a mezzanotte e trenta».
Il vino è il pezzo forte come in passato?
«Disponiamo di bottiglie di annata di grande pregio e costose, da 1.500 a 2.000 euro, ma in ottimo stato di conservazione. Io cerco, però, di scegliere anche vini di buona qualità prodotti da artigiani di mia conoscenza».
Come vi siete trovati, voi, una famiglia proveniente dalla Toscana, a Milano?
«Il connubio è riuscito. Del resto non abbiamo voluto puntare sulla gastronomia della nostra regione. I nostri prodotti sono piemontesi lombardi, emiliani. Qualche volta, soprattutto d'inverno, prepariamo la ribollita, la trippa senese, le salsicce con i fagioli, ma nell'ambito della variazione del menù».
Una volta la clientela era costituita da professionisti, professori universitari e studenti della vicina università Cattolica, agenti di borsa.
«La clientela è rimasta la stessa. I nuovi sono i giovani che partecipano alle feste di laurea.

Con mia madre abbiamo voluto mantenere l'atmosfera di sempre, come la ricordano le persone che venivano da noi trent'anni fa, un'atmosfera intima, raccolta, che sa di tradizione di passato, che fa ritrovare al cliente il gusto di assaporare un buon bicchiere di vino in un ambiente diverso dai locali odierni. In più cerchiamo di offrire cortesia, buonumore, un servizio curato, una cucina semplice e gradevole. Chi ci viene a trovare, ha l'impressione d'incontrare il cuore di Milano».

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