Politica

Telecom, il premier non spiega e scatena la rissa

«Questo attacco architettato contro di me finirà come Telekom Serbia». Solo timidi applausi dalla maggioranza

Gianni Pennacchi

da Roma

Per sette, otto e infine nove volte è stato interrotto e tacitato da un uragano di fischi e grida, battimani sarcastici, coretti in stile «coraggio, coraggio/Prodi è di passaggio», urla di «buffone!» grandinavano dagli scranni d’opposizione mischiandosi a quelle di «buffoni!» che replicava la maggioranza, ancora un poco e venivano giù i vetri istoriati del soffitto. E per sette, otto volte, determinato all’evangelico settanta volte sette, lui riprendeva dalla frase che scatenava sempre la medesima tempesta: «Per me, in particolare, sarebbe anche sconfessare parte della mia storia personale». Più in là non lo lasciavano andare, ogni volta i boati crescevano di intensità. Finché Fausto Bertinotti ha sospeso la seduta, nonostante la diretta televisiva, e mentre tutti sciamavano in Transatlantico lui è rimasto per quaranta minuti seduto al suo posto sui banchi del governo, circondato dai ministri come una pattuglia arroccata e sotto assedio. Difficile nutrir dubbi: ieri alla Camera aprendo il dibattito sul caso Telecom, Romano Prodi ce l’ha messa tutta per «buttarla in caciara» come dicono a Roma. Cercava evidentemente la rissa, verbale s’intende, per far sì che la sua autodifesa fosse interrotta all’ottava pagina delle 17 che aveva preparato; che il dibattito venisse rinviato alle calende greche; e che nessuno degli avversari potesse tentar di inchiodarlo alle sue responsabilità più o meno presunte.
Il centrodestra deve aver compreso il gioco se alla ripresa della seduta, dopo il pistolotto di Bertinotti - «non è bello lo spettacolo che stiamo dando al paese», suvvia impegniamoci in «un corretto e ordinato dibattito» - il presidente del Consiglio è stato lasciato libero di proseguire spiegando che mai e poi mai «il governo da me presieduto» tornerà ad una politica dirigista e statalista in economia, «sarebbe anche sconfessare parte della mia storia professionale» dal momento che quando era all’Iri proprio lui ha avviato «uno dei più consistenti processi di privatizzazione intrapresi in Europa» Dall’opposizione è risuonato un «bravo, bis!», e Prodi come il Nerone di Petrolini ha lestamente risposto «grazie!». Il resto del discorso è dunque filato liscio. Ogni tanto, dalla maggioranza sgorgava uno stanco «piantala!» all’indirizzo delle mosche tze tze che a turno non smettevano di punzecchiare e interrompere il premier, «parla di Rovati!», «Cirio!», «Nomisma!». È però giunto alla fine senza riuscire a dimostrare che è Marco Tronchetti Provera il mendace e non lui, ma scandendo che «anche noi abbiamo fatto la nostra scelta», quella di abbandonare «il modello della proprietà pubblica delle imprese» ma che riorganizza anche e «riqualifica le politiche pubbliche a supporto del sistema industriale». La sua maggioranza lo ha applaudito, ed era soltanto la seconda volta che lo faceva. Il centrodestra s’è apprestato ad ascoltare Giulio Tremonti, Gianfranco Fini e Pier Ferdinando Casini che son poi andati giù di striglia e staffile.
Che altro poteva fare il povero Prodi? A questo dibattito proprio non voleva starci, «ma siamo matti!» aveva reagito inizialmente; poi ha provato a farsi sostituire dal titolare delle Telecomunicazioni, Paolo Gentiloni; quindi s’è piegato a presentarsi alla Camera ma rivendicando che «il presidente del Consiglio va in un solo ramo del Parlamento»; e invece dovrà sottoporsi a questa tortura pure al Senato, il 5 ottobre. Sarà per questo che bofonchiava meno del solito, anzi risuonava indispettito e arrogante sino alla paventata «sconfessione» della sua «storia personale», e poi rapido e spedito alla ripresa della seduta.
Che volete potesse dire, dunque? È partito con gran rumore d’armi assicurando che questo «attacco» alla sua persona «si concluderà allo stesso modo» di quello «architettato per Telekom Serbia». Con sprezzo del pericolo e del ridicolo ha vantato che l’essere ieri «qui e tra qualche giorno in Senato, dimostra quanto l’accusa di volermi sottrarre al confronto col Parlamento sia infondata». Quindi ha ripetuto la sua verità, stavolta solennemente: «Non sono stato mai messo a conoscenza di alcun piano su Telecom Italia». E poi è passato al «propositivo» come suol dirsi, anticipando che per le intercettazioni deviate occorre «il rafforzamento dei poteri sanzionatori e delle risorse a disposizione» del Garante della privacy.


Per rendere più competitive le nostre imprese «dobbiamo riformare il capitalismo italiano» ha esortato spiccando il volo: occorrono «assetti di governo delle imprese più stabili e trasparenti», la politica ha da essere «prima di tutto determinazione di regole», «non avremo uno Stato proprietario della rete». E così via, cercando di soffocare nelle nubi di nobili e belle parole l’interrogativo cruciale: chi non dice il vero, tra Prodi e Tronchetti Provera?

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