Milano - L’archeologo pacifista e l’infermiere pescatore. La tragedia dell’inchiesta sulle nuove Brigate rosse, che si arricchisce di altri quattro fiancheggiatori arrestati, rischia di scivolare in farsa. Complici gli alibi sostenuti da due degli arrestati, Valentino Rossin e Davide Rotondi, sentiti nella seconda giornata di interrogatori. Il primo ha firmato una dichiarazione spontanea davanti al gip Guido Salvini. «Sono stato politicamente attivo dal ’90 al ’97 e mi sono poi allontanato dalla politica attiva, dopo la morte di un amico, mantenendo solo alcuni contatti nell’ambiente della sinistra padovana legata al centro popolare Gramigna». Rossin ha descritto un po’ la sua vita, spiegando di essere laureato in Storia con la passione per l’archeologia. Insomma, il postino Rossin giustifica la pistola a tamburo ritrovata in casa come «un reperto bellico trovato scavando per terra e non in grado di sparare». E il proiettile da kalashnikov? «Il regalo di un amico». Salvini è perplesso. Rossin torna in carcere. Ma il paradosso si vive con l’interrogatorio dell’infermiere Davide Rotondi. Anche lui fa una dichiarazione spontanea. Ammette di conoscere Alfredo Davanzo, considerato uno dei capi della colonna. Ma trasforma tutto in allegra amicizia: «Sono comunista, ma non sapevo che Davanzo fosse nelle Brigate rosse. Andavo con lui a pescare a Miramare, cenavamo insieme, poi andavamo in spiaggia a Sistina. Avessimo avuto dei segreti mica l’avrei portato a preparare l’albero di Natale in ospedale, no?». Incensurato, anche Rotondi sembra non convincere il Gip. Si legge nell’ordinanza: «Rotondi era il “compagno” di riserva che doveva attendere Davanzo a Domodossola (con Il Sole 24 Ore e il manifesto come segni di riconoscimento) nel caso in cui Bortolato avesse dovuto defilarsi dall’incontro. Rotondi è soprattutto la persona che ha messo disposizione l’appartamento di Raveo (Udine) per ospitare Davanzo nella sua clandestinità italiana». Chi invece si indica come «prigioniero» dei magistrati è il sindacalista della Cgil di Torino Vincenzo Sisi. Che davanti al Gip fa un proclama introducendo la figura del brigatista/sindacalista: «Rivendico il mio percorso di militante per la costituzione del Partito comunista nella linea del Partito comunista politico-militare. Respingo fermamente l’espressione “infiltrato terrorista” nella Cgil, che è stata usata nei miei confronti dai media e da qualche giudice. Rivendico di essere operaio e sindacalista da 37 anni, un lavoratore in fabbrica che ha contribuito a costruire il sindacato all’interno di essa».
In carcere, invece, finiscono in quattro per solidarietà con i 15 arrestati appartenenti al Partito comunista politico-militare (Pcp-m). Affiggevano a Sesto San Giovanni manifesti con scritte a pennarello dai toni perentori: «Compagni in piedi o morti, ma mai in ginocchio», oppure «La lotta non si arresta». E ancora: «Governo di guerra e sfruttamento, la lotta non si arresta». Quanto basta per finire dietro le sbarre. Tra i quattro spicca Angela Ferretti, 33 anni, convivente di Massimiliano Gaeta, il tecnico elettronico già in carcere. La donna è sindacalista e nel direttivo della Slc, il sindacato lavoratori comunicazione della Cgil.
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