Lhasa - Centinaia di persone sono morte nelle violenze scoppiate in Tibet. È quanto ha
affermato oggi il parlamento dei tibetani in esilio a Dharamsala, in India. "Il fatto che le grandi manifestazioni iniziate il 10 marzo nella capitale Lhasa e
in altre regioni del Tibet abbiano portato alla morte di centinaia di persone a causa dell’uso
della forza... deve essere portato all’attenzione delle Nazioni Unite e della comunità
internazionale", si dichiara nel comunicato del parlamento tibetano in esilio.
La Cina minimizza Il governatore del Tibet, Champa Phuntsok ha dichiarato che sono 16 le persone rimaste uccise in seguito alle violenze degli ultimi tre giorni in Tibet. L’uomo forte di Lhasa ha riferito, nel corso di una conferenza stampa questa mattina dalla capitale del Tibet, che è tornata la calma in città e ha negato che le truppe cinesi abbiano sparato per reprimere la rivolta. Secondo Champa Phuntsok nel corso delle violenze "diversi civili innocenti sono stati bruciati vivi e la folla ha cosparso le strade di benzina" e picchiato i poliziotti. "Le forze dell’ordine hanno dato prova di grande moderazione e non hanno utilizzato le armi", ha aggiunto il governatore. Secondo alcune organizzazioni internazionali la polizia cinese, oltre che a Lhasa, è intervenuta anche in altre province, quelle di Sichuan e Gansu, per sedare le rivolte.
La minaccia all'India La Cina ha ricordato all’India "l’alleanza economica" che unisce le due potenze emergenti e ha detto di sperare che New Delhi non si lasci "influenzare dalle voci messe in giro dalla cricca del Dalai Lama" e che "mantenga una posizione oggettiva e corretta" sulle violenze a Lhasa, la capitale del Tibet. Il messaggio è stato affidato all’ambasciatore cinese a New Delhi, che ha dato oggi un’intervista all’agenzia Ians. L’India ospita, nella città settentrionale di Dharmasala, il governo e il parlamento in esilio tibetani e il Dalai Lama, la guida spirituale e politica dei buddisti tibetani. L’ambasciatore Zhang Yan ha ribadito le accuse di pechino, secondo cui il Dalai Lama avrebbe "premeditato" e "pianificato in maniera elaborata" le violenze in Tibet, avendo egli un "motivo malvagio" per dividere il paese e rovinare i prossimi giochi olimpici di Pechino. Zhang ha negato che la Cina abbia represso le manifestazioni in Tibet, aggiungendo che le forze di sicurezza di Pechino hanno mostrato "grande moderazione" e che le azioni contro i dimostranti sono state in linea con la legge poichè il governo ha il computo di proteggere la vita e la proprietà dei suoi cittadini.
La Rice a Pechino: "Dialogare col Dalai Lama" Avviare il dialogo con il Dalai Lama: è all’appello lanciato dal segretario di Stato Usa, Condoleezza Rice, al governo di Pechino dopo la repressione violenta della rivolta nella regione himalayana. Conversando con i reporter sull’aereo che l’ha portata a Mosca per colloqui sullo scudo antimissile, la Rice ha ricordato che gli Stati Uniti da anni chiedono a Pechino di stabilire un dialogo con il leader spirituale dei tibetani: "Spererei che trovino finalmente una strada per farlo" nell’attuale crisi, si è augurata il capo della diplomazia statunitense.
La Russia: "Questione interna" Mosca ha detto che le relazioni del governo di Pechino con il Dalai Lama sono "una questione interna" e ha criticato i tentativi di "politicizzare" il prossimo appuntamento dei Giochi Olimpici in Cina. "La Russia ha spesso affermato che il Tibet è parte integrale della Cina e che considera le relazioni con il Dalai Lama una questione interna per la Cina", si legge in un comunicato diffuso dal ministero degli Esteri russo. "I tentativi di politicizzare l’organizzazione dei Giochi Olimpici in Cina sono inaccettabili".
Amnesty: "Subito un'indagine dell'Onu" Le Nazioni Unite avviino un’indagine indipendente su quanto sta accadendo in Tibet. Lo chiede Amnesty International secondo la quale le autorità cinesi devono consentire lo svolgimento di questa indagine. "La situazione in Tibet merita l’ attenzione del Consiglio dei diritti umani, la cui sessione è attualmente in corso". Per Amnesty "le autorità cinesi devono affrontare le ragioni che sono alla base delle rivendicazioni del popolo tibetano, frutto di politiche governative decennali: l’esclusione dai benefici dello sviluppo economico, le limitazioni alla pratica religiosa e l’attacco alla cultura e all’identità etnica".
Ultimatum, i soldati si schierano sui tetti Scade alla mezzanotte di oggi (le 17 in Italia) l’ultimatum imposto dalle autorità cinesi agli abitanti di Lhasa, capitale del Tibet, affinché pongano totalmente fine alle proteste. Le violente manifestazioni di protesta degli ultimi giorni e la dura repressione delle forze dell’ordine cinesi - ricorda il corrispondente del quotidiano britannico Times - non hanno paragoni negli ultimi venti anni della storia del Tibet.
Dal tardo pomeriggio di sabato e per tutta la giornata di ieri i soldati, membri della Polizia armata del popolo, hanno cominciato a schierarsi sulle arterie principali di Lhasa, sui tetti e attorno agli edifici principali della città. Non sono più muniti di soli bastoni, ma dispongono di fucili e numerosi colpi d’arma da fuoco sono già risuonati per le strade della capitale tibetana. Il corrispondente racconta anche di colonne di fumo che si alzava da una moschea in una zona della città abitata da musulmunai, bersaglio dell’odio dei tibetani alla stregua dei cinesi.
Nella notte molti residenti dell’hotel e di altri alberghi adiacenti sono stati invitati a rifugiarsi sopra i tetti nel timore di raid di musulmani inferociti e pronti a vendicarsi. Ma il vero timore, scrive ancora il Times, è per quello che accadrà quando scenderanno le tenebre: l’ultimatum potrebbero essere seguiti da colpi alle porte, rastrellamenti, grida e arresti indiscriminati. "Molti tibetani hanno immagini del Dalai Lama nelle loro abitazioni. Immagino - conclude il corrispondente - che verranno rapidamente nascoste in qualche angolo delle loro case".
Arresti e feriti in Nepal Sono 48 i manifestanti tibetani arrestati questa mattina a Kathmandu, mentre altri tre sono stati feriti in modo grave e sono ricoverati in ospedale. Tra gli arrestati anche cinque monaci e alcune suore che con altri profughi tibetani protestavano pacificamente dinanzi agli uffici delle Nazioni Unite nella capitale nepalese.
Erano poco più di un centinaio i tibetani che si sono dati appuntamento questa mattina dinanzi agli uffici dell’Onu a Kathmandu per sottoporre un appello urgente alle Nazioni Unite chiedendo lo stop del "genocidio". È intervenuta la polizia nepalese che, utilizzando bastoni, ha disperso la folla.- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.