Cultura e Spettacoli

La «tigre della magnesia» che imbarcò gli italiani per un viaggio nei sette mari

Siamo una penisola, eppure sono pochissimi nella storia delle patrie lettere i romanzi di mare: abbiamo il nostro Moby Dick, che è Horcinus Orca di Stefano D’Arrigo; qualche capitolo di Pinocchio; e I Malavoglia, senz’altro. Massimo De Luca (ovvero Raffaele La Capria), si tuffa nello specchio d’acqua di Posillipo nell’estate del ’42, e nuota placidamente mentre gli aerei sganciano le bombe: ma è roba di costa. L’unico italiano che s’è avventurato per i sette mari è stato Emilio Salgari, senza praticamente muoversi da casa sua.
Sull’atlante che Adolfo Stieler pubblicò nel 1830, l’isola di Mompracem veniva ancora indicata nel Mar Cinese meridionale, al largo della costa occidentale del Borneo. Ma già nove anni prima, sulla carta delle Indie Orientali di James Horsburgh, compariva soltanto un isolotto anonimo a mezza rotta tra le Comades e le Tre Isole. Quando nel 1900 Salgari vi collocò il covo di Sandokan e dei suoi tigrotti, Mompracem era soltanto un nome, o meglio, una delle tante versioni di un nome (si contano, ad esempio, Mompiaceni, Monpiacem e Mon Pracem). Nell’ultima pagina della sua biografia dello scrittore veronese, Silvino Gonzato rivela: «A Bandar Seri Begawan, capitale del Brunei, nessuno sa nulla. Neanche il sultano Hassanal Bolkiah, l’uomo più ricco del mondo, sa dove sia finita Mompracem \ Resta il pensiero orribile e romantico, e per questo più difficile da scacciare, che il destino di Mompracem sia legato a doppio filo a quello del suo unico, appassionato cantore» (Silvino Gonzato, Emilio Salgari, Neri Pozza, 1995).
Il destino di Emilio Salgari si compì il 25 aprile 1911. La moglie Ida era già da qualche tempo rinchiusa in manicomio. I tre figli ancora piccoli da accudire in solitudine, le difficili condizioni economiche per via di un contratto-capestro firmato con l’editore Bemporad e una nevrastenia ormai insopportabile, lo convinsero a salire verso i boschi di Val San Martino, nel primo pomeriggio. «Si tolse la giacca e la cravatta, posò il bastone su un ciuffo d’erba, si sdraiò in un piccolo crepaccio che si apriva nel terreno come una nicchia funeraria, e con un rasoio, con furia spaventosa, si colpì ripetutamente all’addome e alla gola».
Salgari si vantava con tutta Verona di essere un capitano di gran cabotaggio e di aver incontrato califfi, principesse, fiere e pirati nei porti dei sette mari. Sull’Arena, con il rivelatore pseudonimo di Ammiragliador, diceva la sua sulla guerra del Tonchino come se ci avesse abitato per anni. Dichiarò di essere stato pure nel Borneo, a Sumatra e nel Ceylon; nelle foreste di Colombo udì gli indigeni cantare una «lamentevole canzone, parecchie volte, verso sera, sotto il vecchio forte olandese». Del generale Gordon scrisse che «partì con la Bibbia in mano, i logaritmi nell’altra e un revolver nella cintura, deciso a sfidare il profeta». Intervistando il caporale Carlo Troiani, reduce da Massaua, Salgari chiese: «Com’è il porto? Tre anni or sono, quando ci fui, aveva non troppa acqua». Tutti sapevano che l’unica imbarcazione su cui era salito in vita sua era l’Italia Una, un trabaccolo di 71 tonnellate che faceva la spola tra Palestrina e Brindisi; vi si imbarcò come mozzo nell’estate del 1880 e vi ridiscese tre mesi dopo, preso dalla nostalgia dei piatti che gli preparavano la mamma Luigia e la zia Filomena. A Verona, prendendolo per il culo, lo chiamavano «Tigre della Magnesia», per via di certi suoi problemi intestinali... Lui si vedeva in un altro modo, e in un altro modo si dipinse per i posteri. Non è difficile riconoscerlo in Yanez de Gomera, il deuteragonista dei romanzi del ciclo malese: «Uomo di mezza statura, ma agile come un’anguilla, allegro come lo poteva essere un marinaio che nuota nel lusso e si avvoltola nell’oro e con un misto di fierezza e di cortesia che lo facevano apparire a prima vista un nobile cavaliero».
L’esotismo sfolgorante che poteva apprezzarsi ne I misteri della jungla nera o ne La capitana dello Yucatan, non aveva nulla a che vedere con quello - volgare - che in quegli stessi anni si udiva sui palcoscenici dei Café-chantant. Al Salone Margherita di Napoli, Armand’Ary cantava «Songo frangesa e vengo da Parigge:/ Io só’ na chiappa ’e ’mpesa,vve ll’aggi’’a dí!», mentre Anita di Landa (che Petrolini soprannominò «la Lucile Sorel del Caffè-concerto») si lanciava in questo bolero «Di Spagna sono la bella,/ maestra son dell’amor!».
La spagnola è la classica canzone da sciantosa, con la sua brava allusione alle capacità amatorie della diva di turno. Era molto di moda essere straniere per le starlette del Cafè-chantant: ci furono anche africanelle, (finte) francesi, tedesche... La moda dell’esotismo fece nascere canzoni ambientate in pampas popolate da ungheresi, piantagioni di caffè coi brasiliani che parlano in spagnolo, e tutta una serie di miscelleanee antropoligico-geografiche.
Salgari resistette poco alla riproposizione dell’immaginario esotico in salsa comica. Nel 1911, dopo cento viaggi da Surama al Bengala, pareva «uno scalcinato Yanez il cui viso baffuto sembrava quello di un grosso gatto randagio pestato». Il suo Sandokan era ancora il fiero avversario degli inglesi e sapeva come accendere la passione amorosa in Marianna, la Perla di Labuan: «Se vuoi andrò a rovesciare un sultano per darti un regno, se vorrai essere immensamente ricca io andrò a saccheggiare i templi dell’India e della Birmania per coprirti di diamanti e oro; se vuoi io mi farò inglese \ Parla, dimmi ciò che vuoi; chiedimi l’impossibile e io lo farò. Per te mi sentirei capace di sollevare il mondo e di precipitarlo attraverso gli spazi del cielo». Ma la «Tigre della Magnesia», invece, il 22 aprile scrisse alla moglie: «Tu sei stata l’unica donna della mia vita». E ai figli: «Sono ormai vinto \ Io spero che i milioni di miei ammiratori, che per tanti anni ho divertiti ed istruiti provvederanno a voi. Non vi lascio che 150 lire \ Vado a morire nella Valle di S. Martino, presso il luogo ove, quando abitavamo in Via Guastalla andavamo a fare colazione.

Si troverà il mio cadavere in uno dei burroncelli che voi conoscete, perché andavamo a raccogliere i fiori».

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