Cronaca giudiziaria

Le toghe non mollano. "Fontana a processo per i camici del Covid"

Già prosciolto nell'udienza preliminare, ora nuova richiesta alla corte d'Appello. L'avvocato Pensa: "Portare ancora avanti questa vicenda è solo un danno per tutti"

Le toghe non mollano. "Fontana a processo per i camici del Covid"

«In quei giorni venticinquemila medici, infermieri e altri operatori hanno dovuto prestare il proprio servizio in assenza di un dispositivo di protezione individuale, perché gli imputati avevano preferito anteporre la salvaguardia dell'immagine politica di Fontana al contrasto alla diffusione del virus». È questo il passaggio chiave del ricorso con cui la Procura ieri è tornata a chiedere il rinvio a giudizio del presidente della Regione Attilio Fontana che si era visto prosciogliere nel maggio 2022 in sede di udienza preliminare per la vicenda dei camici forniti da suo cognato Luca Dini nei primi mesi della pandemia.

Per il giudice preliminare Chiara Valori non c'era stato alcun reato, la sentenza di proscioglimento parlava di «assenza di danno per la pubblica amministrazione e anzi di un vero e proprio vantaggio», visto che dopo l'intervento di Fontana il contratto di vendita dei camici era stato trasformato in donazione. Ma la Procura non si è arresa, ha presentato ricorso, e ieri il pg Massimo Gaballo ha ribadito ai giudici della Seconda sezione della Corte d'appello la richiesta di mandare sotto processo Fontana, Dini e gli altri tre imputati con l'accusa di frode in pubbliche forniture. I documenti e le testimonianze raccolte durante le indagini, dice il procuratore generale, forniscono una «ragionevole previsione di condanna».

Perchè, se alla fine la Regione ottenne gratis quello che invece avrebbe dovuto pagare? Il tema chiave, nel ricorso della Procura ruota solo intorno a quei venticinquemila camici che rimasero nei magazzini di Dama, la ditta di Dini. «Nessuna contestazione vi sarebbe stata laddove le consegne - anche a titolo gratuito - fossero andate avanti sino al termine». Ma la fornitura prevista a pagamento era di 75mila camici, l'azienda di Dini alla fine ne regalò circa 50mila (e per questo Fontana cercò, senza riuscirci, di risarcire personalmente il cognato), il resto non venne mai consegnato. A rinunciare alla fornitura, sostiene l'accusa, fu il direttore generale di Aria, la centrale acquisti regionale, Filippo Bongiovanni. «Bongiovanni ha deliberatamente rinunciato alla consegna di venticinquemila camici poichè così gli era stato chiesto da Fontana (...) Fontana e Dini intendevano limitare i danni economici derivanti dalla complessiva operazione dando la possibilità a Dama di immettere sul mercato i capi residui (...) dal momento che Fontana si era impegnato con il cognato a tenere indenne la società rispetto a quanto già consegnato, deve ragionevolmente ritenersi che il Governatore si stesse muovendo anche per limitare una propria perdita economica».

Per sostenere la propria linea, la Procura nega che nei giorni chiave - intorno al 20 maggio 2020 - il fabbisogno di camici fosse calato. E comunque Bongiovanni non avrebbe potuto decidere da solo, senza passare per il consiglio d'amministrazione di Aria, la trasformazione della vendita in donazione. «Se lo snellimento burocratico era finalizzato ad acquisire beni necessari per tutelare la salute pubblica, in questo caso Bongiovanni se ne è servito per liberare un contraente amico" dagli obblighi derivati da un contratto di pubblica fornitura».

Contro l'assoluzione disposta dieci mesi fa dal giudice Valori (insospettabile di facili indulgenze o di simpatie leghiste) la Procura nel suo ricorso usa giudizi piuttosto pesanti. Ora la palla passa alla Corte d'appello, presieduta da Enrico Manzi.

La decisione entro luglio.

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