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Torna Romain Gary, il camaleonte della letteratura

Eroe di guerra, diplomatico, viaggiatore e gran seduttore. Una mostra parigina celebra le infinite identità dello scrittore

Torna Romain Gary, il camaleonte della letteratura

nostro inviato a Parigi
Gli piaceva la storia del camaleonte che assumeva il colore della coperta su cui veniva depositato. Un giorno lo misero su un plaid scozzese e il camaleonte impazzì. Aux Laines Écossaises era l’indirizzo di boulevard Saint-Germain dove Romain Gary comprò la vestaglia che indosserà prima di spararsi in bocca, un mattino di trent’anni fa: era il camaleonte della letteratura, era arrivato a creare un suo doppio in carne e ossa e cominciava anche lui a fare confusione e a prendere un colore per un altro... Il negozio esiste ancora e, sarà un caso oppure un segno del destino, è più o meno di fronte al Musée des Lettres et Manuscrits che ospita la grande mostra a lui dedicata: Des Racines du ciel à La Vie devant soi (fino al 20 febbraio). Il titolo è ingannatore, rimandando al ventennio intercorso fra l’assegnazione dei due premi Goncourt che una volta con il proprio nome, la seconda con quella di Émile Ajar, Gary vinse, caso unico nella storia letteraria di Francia. In realtà, attraverso oltre centosessanta pezzi, fra cui il suo primo romanzo scritto a diciassette anni e rimasto inedito, molti manoscritti, lettere autografe, articoli, fotografie, registrazioni televisive, l’esposizione ripercorre tutta la vita di uno scrittore che fu eroe di guerra e diplomatico di carriera, regista cinematografico e inviato speciale, seduttore e misogino, mistificatore sublime. C’è anche quella sua risposta al cosiddetto Questionario di Marcel Proust: alla domanda «Chi vorreste essere?» aveva replicato: «Romain Gary, ma è impossibile».
Le foto raccontano una vita in maschera, il ragazzo ebreo-lituano che a vent’anni si naturalizza francese e cambia nome, da Kacew a Gary, appunto, ma per tutta la vita conserverà quei suoi tratti mongoli e un po’ mistici che lo renderanno per sempre esotico agli occhi dei suoi nuovi connazionali. La passione per le «uniformi» farà il resto, che siano quelle di aviatore della Francia libera di de Gaulle, gli impermeabili, i poncho, i pantaloni di pelle, le camicie di seta, i cappelli americani e i colbacchi, gli anelli e i sigari cubani propri di un romanziere vitalista voglioso di esserci e di apparire e allo stesso tempo incapace di far parte di un gruppo, di un’associazione, di un partito, di una famiglia. Il primo matrimonio, quello con la scrittrice inglese Lesley Blanch, finirà talmente male che entrambi, in seguito, espelleranno la presenza dell’altro dalle loro vite, come se non fosse mai esistita. Il secondo, quello con Jean Seberg, affonderà per la depressione e poi la morte di lei, tanto più giovane di lui e tanto più delicata e feribile. In mostra c’è anche una sua poesia: «Quest’uomo che dorme al mio fianco/ che ignora i miei desideri» c’è scritto... Faranno in tempo ad avere Diego che, crescendo, si ritroverà come eredità il fantasma di due genitori morti suicidi. «Per anni non ho voluto mettere al mondo un figlio, per poter conservare il diritto di uccidermi» ha confessato tempo fa.
Nel bel catalogo che accompagna la mostra, Lectures de Romain Gary, un intervento di Adélaïde de Clermont-Tonnerre aiuta a fare il punto su un’esistenza che fu piena eppure mai soddisfatta, sempre e comunque vissuta di corsa, ma come se il motore fosse imballato e girasse a vuoto. Scrive Adélaïde che con il suo suicidio Gary «uccise più la realtà che se stesso. La sua opera, la sua vita, quella stessa pallottola hanno fatto di lui più che un uomo: una leggenda».
Gary detestava la realtà, non la trovava all’altezza di ciò che la sua immaginazione gli dettava, ne constatava giorno per giorno la sterilità e il non senso, non riusciva ad accettarne la logica che ne era alla base, il niente da cui si proveniva, il niente in cui alla fine si ritornava... La creatività del romanziere era l’unica cosa a disposizione per moltiplicarla e guidarla, per darle una ragione e insieme per tenere desta quella che lui chiamava «la parte Rimbaud», l’elemento idealista, lirico, immaginario che anche nelle ore più disperate non rinuncia a credere e a sperare.
Quest’ansia sarà alla base di trentadue romanzi, alcuni magnifici, altri falliti, ma l’insieme resta un corpus impressionante e in Italia Neri Pozza sta facendo un’opera meritoria nel pubblicarli, perché concorrono a disegnare non solo il clima di un’epoca, ma le ossessioni senza tempo che hanno a che fare con il sesso e con l’amore, con la morte e con il dolore, con l’amicizia, il tradimento, la dignità e la sopraffazione. Come tutti quelli che vogliono rinascere e a cui una vita non basta, l’eccesso sarà la croce e la delizia di Gary, la tragedia che può tramutarsi in farsa, la poesia che si fa retorica, il sublime che finisce nel ridicolo. A trent’anni dalla morte, la leggenda continua a celebrarne gli elementi più esterni e più facili, o a sottolinearne una nobiltà di pensiero reale, certo, ma non particolarmente profonda, e la critica letteraria che così clamorosamente sbagliò nel giudicarlo in vita, mantiene l’atteggiamento sospettoso che si ha di fronte a uno troppo dotato e troppo prolifico per poter essere veramente considerato bravo.


Nell’Ottocento che tenne a battesimo il romanzo, Gary sarebbe un piccolo grande classico, nel Novecento che troppo frettolosamente ne ha decretato la morte, resta un impiccio, un fastidio e forse un rimorso... Eppure, in russo Gary significa brucia e Ajar significa brace. Il camaleonte può anche impazzire, ma è proprio della fenice rinascere dalle proprie ceneri.

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