Andrea Acquarone
da Milano
Era una sera del 1997, sua figlia Valeria aveva 17 anni. Con suo fratello Marcello e un amico stava rincasando. Sentì il motore della loro auto rallentare e spegnersi, la mamma. E finalmente si sentì tranquilla. Erano tornati, tutto bene.
Il destino, invece, stava aspettando. Beffardo e crudele. Ebbero giusto il tempo di chiudere le portiere quei tre giovani. Ed ecco la morte materializzarsi nel buio. Una macchina, guidata da un ragazzotto forse ubriaco, sbucò nella stradina a velocità folle. Lo schianto fu tremendo. Valeria morì, gli altri due rimasero gravemente feriti.
Marcello, il fratello della vittima, oggi ha 28 anni e fa l’avvocato. Sua mamma, ma in questo caso soprattutto la madre di quella giovanissima morta senza senso, da cinque anni dedica la sua esistenza all’Associazione familiari e vittime della strada. Ne è la presidente. Si chiama Giuseppa Cassaniti, ex dirigente scolastica, una laurea in filosofia. Pina per gli amici. Il tempo non e riuscito a mettere la sordina al suo dolore. E lei oggi si fa carico anche di quello altrui. Combattendo per ottenere giustizia. A colpi di manifestazioni, denunce, segnalazioni a governo e prefetti e assistenza legale alle troppe vittime di questa giungla mortale che sono le strade del Belpaese.
Qualcosa non funziona nella legge: che cosa, dottoressa Cassaniti?
«Il problema sta nelle istituzioni e nella giustizia che ancora sottovaluta questi reati di strage applicando pene risibili che offendono le vittime e chi a loro sopravvive lasciando liberi gli assassini. Per questo da anni chiediamo controlli più efficaci sulle strade e forti misure sanzionatorie e penali per chi guida in stato di ebbrezza. Ciascuno ha facoltà di scelta, di decidere se rispettare i limiti o no, di sorpassare o meno. Di non rischiare la vita altrui. Chi uccide “scientemente” deve pagare. Ma qui nessuno fa mai un giorno di galera...».
Cosa fare, dunque?
«Primo, è necessario che si consideri il guidare sotto l’effetto di alcol o droghe una pesante aggravante del reato. In tali casi ci vorrebbe il ritiro definitivo della patente, oltre alla piena applicazione delle pene previste dall'articolo 589 del codice penale, riferite al limite massimo (12 anni di carcerazione ndr) e non al limite minimo, ovvero un anno ridotto di un terzo e sempre con sospensione condizionale della pena come fino ad ora è stato arbitrariamente fatto nei tribunali italiani. In tal modo una magistratura troppo “disinvolta” ha contribuito alla reiterazione del reato».
Colpa dei giudici, quindi...
«I casi eclatanti di mala giustizia nella gestione degli incidenti stradali non rappresentano l’eccezione, bensì costituiscono una prassi consolidata, la regola. Chi uccide resta di fatto impunito. Dove sta la perpetrazione dell’ingiustizia, nella legge o nei comportamenti arbitrari dei professionisti della giustizia? È possibile che la vittima debba essere anche vittima di giudici capaci con i loro comportamenti iniqui di annullare il valore della legge?».
Loro rispondono che si limitano ad applicarla...
«È vero solo in parte. In Italia nessuno finisce in cella per aver col proprio comportamento dissennato al volante tolto la vita ad altri. I giudici applicano sempre e solo il minimo della pena. Anche questo è uno dei motivi che ci hanno spinti a sollecitare l’approvazione del disegno di legge 3337 che, pur se non pienamente rispondente alle nostre attese, indica tuttavia un’inversione di tendenza nella trattazione del reato da incidente stradale, non più cosa da poco, ma da stigmatizzare con l’incremento della pena e della sospensione della patente, con lo svolgimento di lavori socialmente utili non retribuiti. Fino a una maggiore attenzione verso le vittime da un punto di vista dei risarcimenti. Con l’assegnazione di una provvisionale dal 30 al 50% del presumibile risarcimento».
Secondo lei bisogna modificare la normativa, quindi
«Rispondo così: sia il patteggiamento che il rito abbreviato sono due obbrobri giudiziari.
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