Cultura e Spettacoli

Una Turandot gioiosa che commuove

Paolo Scotti

da Macerata

Ecco, ci siamo. La schiava Liù s’è appena data la morte, pur di non svelare il nome del Principe Ignoto. Ora, tra rimorso e pietà, la folla dovrebbe sollevarne il piccolo corpo e portarlo via. Ma i cantanti restano fermi. Nessuno si muove. E la musica (l’ultima musica di Puccini: morirà anche lui con Liù, lasciando incompiuta Turandot) si spegne in un immoto singhiozzo. Silenzio. Perché non attaccano le aspre note composte da Alfano per concludere l’opera? Tutte le luci si sono spente, anche quelle dell’orchestra.
Solo adesso, in un silenzio irreale Liù parte per l’ultimo viaggio. Per infiniti minuti, in totale assenza di note, il pubblico trattiene il fiato. Finché, svanito il corteo nel buio, torna la luce. Riparte la musica. E più d’una signora s’asciuga furtiva una lacrima. Questo non è solo un toccante coupe de théâtre. Nella magnifica Turandot che domenica ha trionfato allo Sferisterio Opera Festival, questo è anche il funerale di Puccini. E dell’ultima opera davvero amata. E dell’opera in sé, come genere universale popolare. Ecco spiegati commozione ed entusiasmo scatenati dallo spettacolo firmato da Pier Luigi Pizzi. Quante Turandot baracconesche abbiamo visto, prima di questa, tanto semplice quanto perfetta nell’essenziale, unica scenografia (la reggia della protagonista, fastosamente rosso lacca e oro, al sommo d’una grigia scalinata)? Quanto kitsch abbiamo digerito prima di goderci l’infallibile magistero coloristico con cui Pizzi, solo mescolando figuranti dai colori selvaggi evoca la Cina più «fauve», senza ricorrere neppure ad una cineseria? Quante pachidermiche Turandot, sensuali come balene e vestite come carri da carnevale abbiamo finto di non vedere prima d’ammirare Olha Zhuravel, soprano dotata non solo d’una voce duttile e in crescita (canta da appena due anni) ma del fisico da vamp che t’aspetti in una fatale principessa, esaltato da regali tuniche di strass?
Tutto il mondo barbarico e struggente della fiaba cinese (si pensi a quel «coro alla luna», che Pizzi evoca col solo magico ondeggiare di decine di lumini di carta) si fonde al fascino dell’apologo crudele (la prima apparizione di Turandot, in veli rosso fiamma e piedi nudi, come un idolo); ma intanto ne propone anche uno diverso, umanizzato: come quando la malvagia principessa si presenta circondata di bambini innocenti (simbolo della sua verginità) o come nel finale, in cui si vede una Turandot finalmente innamorata esplodere di gioia, saltellare felice come una bambina. In linea con quella del regista, la direzione musicale di Daniele Callegari ha tagliato netto gli orpelli senza rinunciare al fasto. Sotto la sua bacchetta i colori di Puccini, le percussioni primitive, gli slanci vigorosi risaltavano con nitore. Rapinoso anche quando un po’ privo di corpo il canto della Zhuravel; centrato nella dolcezza dei filati quello di Serena Daolio (Liù). In evidente affanno al secondo atto, Calaf (Dario Volontè) ha saputo riprendersi in tempo per un dignitoso Nessun dorma. Menzione speciale per il coro Bellini diretto da Matteo Salvemini, fiammeggiante protagonista in tutti gli atti. Brillantissimo il terzetto dei consiglieri (Bruno Taddia, Mark Milhofer, Thomas Morris) beffardi e sarcastici nel canto come nei burattineschi movimenti. Ma le ovazioni finali sono state tutte per Pizzi. Per quel magico tocco con cui sa esaltare l’eterna giovinezza d’un capolavoro.

Il magico, giovane tocco della leggerezza.

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