«È il sogno che mi porto in cuore». Così nei giorni precedenti il voto il primo ministro turco Recep Tayyp Erdogan descriveva il magico miraggio del 367, il numero di seggi necessari per garantirsi la maggioranza di due terzi del Parlamento, cambiare la Costituzione, varare un presidenzialismo alla francese, trasformarsi da premier a presidente e guadagnare - in due turni successivi - quel magico 2023 centesimo anniversario della Repubblica turca. Era l’obiettivo della sua carriera. Ma non sarà per stavolta.
Mentre a urne chiuse i numeri gli si srotolano davanti quel sogno, quelle ambizioni, quei traguardi si trasformano in un incubo. Invece del magico 75 per cento Erdogan si ritrova tra le mani un 50,3 per cento (326 seggi). È sempre la maggioranza dei seggi. Ma è anche il peggior risultato dal 2002 a oggi. A sbarrargli la strada, a sgranocchiargli quel quorum indispensabile per il magico 367 ci pensano gli ultra nazionalisti del Mhp (Partito d’azione nazionale).
Nonostante la devastante campagna a base di scandali sessuali e infedeltà coniugali scatenatagli contro alla vigilia delle elezioni, l’Mhp riesce a superare la soglia del 10 per cento, indispensabile per entrare in Parlamento, salire fino al 13,1 per cento e trasformarsi in una diga di 54 seggi capace di bloccare la piena del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo di Erdogan. Ma la grande paura innescata dai sogni d’egemonia del premier finisce per ridare vita e voti soprattutto a Kemal Kemicdaroglu e al suo Partito del Popolo Repubblicano (Chp). La campagna di Kemicdaroglu puntava a far leva sulle paure e sulle ansie degli ultimi laici del Paese. «Diamo una lezione a Erdogan e all’Akp» – esortava il capo dei repubblicani. Alla fine sembra esserci riuscito. Secondo i dati di ieri sera si sarebbe messo in tasca quasi il 30 per cento dei voti - pari a circa 136 seggi - contribuendo in maniera decisiva a rintuzzare i sogni del premier. Quei sogni erano un autentico incubo per chi non li condivideva. Un incubo per i generali, un incubo per i magistrati, un incubo per tutta quella casta laica e repubblicana che nell’egemonia di Erdogan intravedeva la definitiva fine di ogni speranza per la Repubblica laica nata dalla testa di Mustafà Kemal Ataturk.
Quel disegno anacronistico, artificiale e lontano, concepito alla morte dell’impero per imprigionare in una paludata cotta laica una nazione simbolo della storia dell’Islam è morto fin dal 2002, fin dalla prima elezione di Erdogan. Ma nell’archiviazione della vecchia Costituzione gli sconfitti vedevano il possibile «redde rationem» di Erdogan, la loro definitiva condanna a morte. Nei disegni di repubblica presidenziale di Erdogan l’opposizione intravedeva un modello molto più simile a quello russo di Vladimir Putin che non a quello francese. E comunque non certo l’atto di nascita di una grande democrazia islamica. Dal loro punto di vista sarebbe stato, invece, l’atto di nascita di un nuovo stato autoritario capace di portare alle estreme conseguenze l’avversione di Erdogan per la stampa d’opposizione e per chiunque tenti di contrapporsi ai suoi programmi. I primi segnali già c’erano. L’editore di Hurriyet, il più venduto giornale del Paese, è stato costretto, nell’ultimo anno, a mettere sul mercato due testate per far fronte ad una multa miliardaria impostagli dal governo. Una multa imposta ufficialmente per ragioni fiscali, ma decretata in verità per sanzionare lo spazio garantito da Hurriyet all’opposizione laica. Al gruppo editoriale dalle cui rotative esce il quotidiano Sabah è andata anche peggio. Il suo proprietario, finito in galera per truffa, è stato costretto a svendere il controllo dell’azienda a una società controllata dal genero di Erdogan. E ad aumentare i timori delle opposizioni laiche ha contribuito il piano del governo per l’introduzione, dubito dopo le elezioni, di un sistema di controlli e filtri su tutta la rete internet.
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