S e ne parlava come dell’«eminenza grigia» del Mussolini, come dell’«uomo più potente del regime» dopo, naturalmente, il suo capo. In effetti il sodalizio fra Cesare Rossi e Mussolini era stretto e antico. Cesarino - così lo chiamava Mussolini - veniva dal sindacalismo rivoluzionario, dal suo stesso ambiente ed era quasi coetaneo. Pochi anni, infatti, li separano. Cesare era nato nel 1887, Benito nel 1883. Dal momento nel quale si erano conosciuti, le loro strade si erano intrecciate.
Avevano avuto contatti con gli stessi ambienti rivoluzionari, avevano scritto sugli stessi giornali e sulle stesse riviste. Avevano letto i medesimi autori, per esempio il Georges Sorel delle Considerazioni sulla violenza e il Gustave Le Bon della Psicologia delle folle. Entrambi avevano nel sangue la passione per giornalismo e per la politica. L’interventismo rivoluzionario nella Prima guerra mondiale e poi le battaglie del primo dopoguerra erano state tutte tappe che avevano cementato una profonda amicizia e gettato le basi per una solida collaborazione. Rossi era stato tra i fondatori dei fasci alla famosa riunione di Piazza San Sepolcro a Milano nel marzo 1919. Poi, aveva seguito Mussolini in tutti i passaggi, dallo sciopero legalitario alla marcia su Roma, che lo avrebbero portato nell’ottobre del 1922 alla conquista del potere. E questi lo aveva tenuto vicino, nei posti che contavano, prima come vicesegretario di nomina, ma segretario di fatto del Partito nazionale fascista, poi come capo dell’Ufficio Stampa della Presidenza del Consiglio dei Ministri.
Nel 1924, Cesare Rossi era all’apogeo della sua potenza. Aveva un peso all’interno del partito e nel mondo dei giornali, ma, soprattutto, aveva quel rapporto privilegiato con Mussolini che ne accresceva, certo, l’influenza ma che, al tempo stesso, gli attirava gelosie e antipatie soprattutto tra gli intransigenti. Poi, c’era stato il delitto Matteotti, che aveva suscitato un’ondata di indignazione nel Paese. Rossi era rimasto coinvolto nella vicenda, per i rapporti con i rapitori del parlamentare socialista - in particolare Amerigo Dumini il cui nome era sul suo libro paga - e la cosiddetta Ceka, l’organizzazione clandestina creata per effettuare azioni repressive nei confronti degli oppositori del regime. Mussolini, subito dopo l’arresto di Dumini e venuti fuori i rapporti con Rossi, ne pretese le dimissioni insieme a quelle di altri. Da quel momento cominciò a maturare la rovina politica di Cesare Rossi. Inseguito da un mandato di cattura si costituì dopo qualche giorno. Seguirono la pubblicazione sul Mondo di Amendola di un memoriale difensivo che accennava a precise responsabilità di Mussolini, l’assoluzione in istruttoria, la riacquistata libertà nel dicembre del 1925 e poi la fuga in Francia.
Qui, nel paese che era diventato il ritrovo del fuoriuscitismo fascista, Rossi, guardato con sospetto dagli antifascisti, si ritrovò con altri ex fascisti, più o meno conosciuti, che, per un motivo o per l’altro, avevano scelto la strada dell’esilio. Dalla Francia, Rossi pubblicò una dura requisitoria contro Mussolini dichiarandosi del tutto estraneo al delitto Matteotti in un opuscolo introdotto clandestinamente in Italia. Il risultato fu che venne incluso fra i nemici del regime. Arrestato con uno stratagemma nel 1928, fu condannato dal Tribunale Speciale nel 1929 a trent’anni di carcere. La prigionia durò fino alla fine del 1942 quando gli fu concessa la libertà condizionale con l’ordine di risiedere stabilmente a Sorrento. Morì a Roma nel 1967 e pochi furono i necrologi sui giornali.
Lo storico Renzo De Felice, nella prima metà degli anni Sessanta, quando da poco aveva cominciato a lavorare alla biografia mussoliniana, ebbe diversi contatti con Cesare Rossi che ormai viveva ritirato a Roma, insieme alla moglie, e che scriveva articoli e libri prevalentemente memorialistici. L’uomo gli fece un’impressione notevole, quella di persona dotata di intelligenza non comune, ma anche emotivamente provata e piena di rancori, gentile e disponibile al colloquio, ma ferma nelle sue convinzioni e, soprattutto, nella riaffermazione della propria estraneità al delitto Matteotti. De Felice ne ebbe, insomma, un’impressione positiva ma velata da un minimo di diffidenza. In seguito a De Felice capitò fra le mani un documento interessante: un memoriale scritto da Cesare Rossi nel 1932 e indirizzato a Mussolini per spingerlo a varare un’amnistia per i prigionieri politici in vista del ventennale della Rivoluzione. In quel memoriale - che De Felice mi consegnò e che io passai poi a Mauro Canali, biografo di Rossi, per una sua pubblicazione su Nuova Storia Contemporanea - erano contenute le prove che, in fondo, quanto Cesare Rossi aveva scritto nei suoi libri - in particolare in Mussolini com’era - era da considerarsi attendibile.
Per esempio, De Felice era rimasto perplesso da quanto raccontava Cesare Rossi a proposito del comportamento ambiguo dei nazionalisti (in particolare di Federzoni) nella notte fra il 28 e il 29 ottobre 1922 e pensò che questi avesse preso l’informazione da un volume di Efrem Ferraris, il capo di gabinetto di Facta, su La marcia su Roma vista dal Viminale, pubblicato solo nel 1946. In realtà la scoperta del memoriale dimostrava che di quella vicenda Rossi era a conoscenza, perché ne era stato anche testimone, dal 1932.
È un piccolo episodio che serve, però, a far capire come il libro, ormai introvabile, di Cesare Rossi, Mussolini com’era, offerto da Il Giornale ai propri lettori, sia importante come fonte storica oltre che come contributo alla conoscenza del vero Mussolini e della sua personalità.
- dal lunedì al venerdì dalle ore 10:00 alle ore 20:00
- sabato, domenica e festivi dalle ore 10:00 alle ore 18:00.