Tutto ruota attorno a una «calibro 22»

Una sola pistola per tutti i crimini. Apparteneva a un uomo sardo e nessuno ha mai spiegato come sarebbe arrivata ai tre condannati

«In Italia - afferma lo scrittore Carlo Lucarelli - non ci sono misteri ma segreti». La trama dei delitti del Mostro è un viaggio fra logge, rituali esoterici, cadaveri scomparsi e sostituiti. Un intrigo diabolico e agghiacciante. Con il terzetto Vanni-Pacciani-Lotti all’ultimo gradino, quello degli esecutori.
Certo, le prove raccolte contro Pacciani appaiono ancor oggi assai traballanti e il suo profilo di uomo dalla sessualità eccessiva, quasi animalesca, fa a pugni con quello disegnato dall’Fbi. In Italia, spesso, le inchieste si trasformano in trattati dietrologici. Insomma, ribaltando il giudizio di Lucarelli si potrebbe dire che in Italia ci sono solo segreti perché nessuno riesce a risolvere i misteri. Nel caso del mostro la grande questione è la pistola: la Beretta 22. Era sicuramente nelle mani degli assassini di Barbara Locci, la moglie di Stefano Mele, uccisa con l’amante nella sua auto il 21 agosto 1968. Per quel duplice delitto è stato condannato Stefano Mele, il marito sardo della Locci. Sicuramente Mele sparò almeno un colpo e altrettanto sicuramente non era solo quel giorno. Con ogni probabilità quel massacro fu compiuto da un piccolo clan di sardi, preoccupato per le intemperanze della donna. Il punto irrisolto è fondamentale: se Mele premette il grilletto, chi gli mise in mano quella pistola? E come mai la Beretta finisce sei anni dopo nelle mani del mostro o dei mostri? Una regola elementare della mala dice che un’arma che ha ucciso non passa mai di mano. E non viene mai venduta. Le inchieste, che a lungo hanno scavato le personalità di quel gruppo di sardi, non sono mai venute a capo dell’enigma. La pistola resta il principale problema.
Il piccolo Natalino, il figlio di Barbara e Stefano, che sonnecchiava sul sedile posteriore della Giulietta bianca al momento del delitto, raccontò di aver visto sì il padre ma anche Salvatore. Salvatore Vinci, amico dei genitori, a sua volta sospettato all’inizio di essere il mostro. Era forse lui il padrone di quella maledetta pistola, cercata invano per tanti anni. Inspiegabilmente, gli investigatori non hanno mai dato importanza a un dettaglio solo apparentemente marginale: nel ’74, poco prima che la Beretta tornasse a sparare, Salvatore Vinci denunciò ai carabinieri un’intromissione a casa sua. Vinci fece nome e cognome del ladro, un ragazzo di quindici anni, a lui assai vicino, ma aggiunse sibillino che non gli aveva portato via nulla. Ma allora - viene da dire - perché rovinarlo? I carabinieri catalogarono l’episodio come violazione di domicilio e quella carta fu dimenticata. Secondo Douglas Preston e Mario Spezi, autori del documentatissimo Le dolci colline di sangue (Sonzogno), quel ragazzo, potrebbe essere il mostro di Firenze. Il suo profilo assomiglia come una goccia d’acqua a quello disegnato dagli americani. Va però aggiunto che Spezi, cronista della Nazione e autore di centinaia di articoli sul mostro, è finito a sua volta nel labirinto delle indagini, è stato arrestato in aprile ed è indagato, addirittura, insieme a Calamandrei come mandante del delitto Narducci.

Il Tribunale del riesame e la Cassazione hanno demolito l’ordine di custodia. Per gli ermellini la colpa di Spezi è una sola: «Si è sostanzialmente limitato a offrire una lettura alternativa delle risultanze delle indagini». In poche parole, ha fatto solo il suo mestiere.

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