Come possibile icona sostituiva della Madonna pellegrina di quarantottesca memoria, Mara Carfagna, ministro per le Pari opportunità, sembra avviata sulla buona strada. Per rendersene conto basta entrare nell’ufficio romano del suo portavoce, Paolo Emilio Russo, in largo Chigi, dove si accumulano come tanti ex voto i quadri a olio inviati dai devoti di tutta Italia con velleità artistiche. Nel più maldestro, che vorrebbe ispirarsi a Ernesto Treccani, la Carfagna è irriconoscibile. Nel più riuscito, che si rifà ad Andy Warhol, è riconoscibile per via degli occhi strabuzzati che la fanno assomigliare a Janet Leigh accoltellata nella doccia di Psyco.
Questa degli occhi del ministro, due lanterne perennemente spalancate sul mondo, è una delle tante leggende metropolitane, e nemmeno la più perfida, che nel corso degli anni sono state cucite addosso alla donna angelicata del governo Berlusconi. C’è chi ha azzardato l’abuso di cocaina. Chi un esoftalmo da ipertiroidismo, a dispetto del collo alla Modigliani che non presenta la minima traccia di gozzo. Chi una retrazione palpebrale corretta da un intervento di blefaroplastica malriuscito, insinuazione che indirettamente ferisce soprattutto Gian Rocco Carfagna, il fratello maggiore (due anni di più) e anche l’unico, il quale fa il chirurgo estetico a Salerno. Lei sorride: «Sono semplicemente molto miope. Dovrei portare occhiali da 10 diottrie. Ho rimediato con le lenti a contatto. Però arriva un momento della giornata in cui non le tollero più».
Appena 11 metri, la larghezza di via del Corso, dividono il dipartimento per le Pari opportunità da Palazzo Chigi, occupato dal presidente del Consiglio che - per restare ai paragoni religiosi - ha definito Mara Carfagna «una Maria Goretti». Il ministro, 35 anni il 18 dicembre, non ricorda se conobbe Berlusconi nel 2001 o nel 2002. Il primo incontro avvenne a Palazzo Grazioli, residenza privata del premier, al seguito del padre, il professor Salvatore Carfagna, preside delle superiori e militante di Forza Italia, che s’era fatto ricevere dal Cavaliere per esporgli una questione scolastica nella quale era coinvolta, quando si dice il caso, la magistratura rossa. S’era da poco laureata in giurisprudenza all’Università di Salerno, sua città natale, e aveva alle spalle dieci anni di pianoforte al conservatorio, un diploma in danza classica presso la scuola del San Carlo di Napoli, un periodo di formazione come ballerina a New York, una partecipazione al concorso di Miss Italia nel 1997 e uno sbiadito curriculum di soubrette e conduttrice fra Rai e Mediaset. Tutto il contrario della sfolgorante carriera politica che quell’incontro le dischiuse: coordinatrice del movimento femminile di Forza Italia in Campania nel 2004; deputata nel 2006; rieletta nel 2008; ministro dall’8 maggio dello stesso anno per garantire a tutti i cittadini uguali diritti indipendentemente dal sesso, dalla razza, dalla religione, dall’origine etnica, dalle condizioni personali e sociali, dalla disabilità, dall’orientamento sessuale, «un tema che nell’agenda politica è spesso considerato erroneamente di serie B e invece è prioritario, perché contraddistingue il livello di civiltà e di democrazia di un Paese».
Se è prioritario, come avrà fatto la Repubblica italiana a far senza del ministero per le Pari opportunità per mezzo secolo, fino al 1995?
«Molte delle mie deleghe erano attribuite alla presidenza del Consiglio».
Non è una contraddizione che il ministro per le Pari opportunità sia contraria alle quote rosa?
«Credo che nessuna donna sia favorevole a vedersi reclutata per l’appartenenza a un genere anziché per il suo talento».
Come disse Stefania Craxi, quello che conta è portare al governo le quote grigie, dal colore della materia cerebrale.
«Infatti. In Italia vi è uno squilibrio di rappresentanza. Nonostante questo Parlamento abbia visto aumentare la presenza femminile del 3-4 per cento e al governo siedano per la prima volta cinque donne, l’evoluzione è molto lenta. Ma bisogna tener conto della storia: le donne si videro garantire il diritto di voto solo nel 1946; l’autorizzazione maritale che obbligava la moglie a chiedere al capofamiglia il permesso per comprare, ipotecare, alienare beni immobili o per contrarre mutui fu abolita nel 1919; le disposizioni di legge sul delitto d’onore furono abrogate nel 1981; il diritto di famiglia fu riformato nel 1975».
I cittadini di religione musulmana devono avere le stesse opportunità dei cittadini di religione cattolica?
«Ovvio. La libertà religiosa è garantita dalla Costituzione. Semmai dovrebbe avvenire la stessa cosa nei Paesi dove i cristiani sono perseguitati e possono pregare solo negli scantinati delle ambasciate».
Allora perché insieme con Gianfranco Fini lei ha chiesto che nelle moschee i sermoni vengano tenuti solo in italiano invece che in arabo? Non lo sa che l’arabo è la lingua sacra dell’Islam?
«Sì, lo so, ma sono troppe le moschee trasformate in centrali dell’odio. Anzi,bisognerebbe istituire un registro degli imam fai da te che inneggiano alla guerra santa. Ogni libertà trova un limite nella libertà altrui. Dove si celebrano le messe in latino, i sacerdoti tengono le omelie in italiano e non predicano la distruzione dell’Occidente».
S’è dichiarata favorevole a una legge che vieti il burqa. In base a quale principio una donna islamica non dovrebbe avere pari opportunità con un’adolescente italiana che gira per strada in hot pants?
«Il burqa non mi allarma come simbolo religioso, che peraltro non lo è nemmeno, quanto come modello di sottomissione della donna contrario ai principi stabiliti dalla nostra Costituzione e dalle nostre leggi».
Non c’è già l’articolo 5 della legge 152 del 1975 a vietare «qualunque mezzo atto a rendere difficoltoso il riconoscimento della persona, in luogo pubblico o aperto al pubblico, senza giustificato motivo»?
«La giurisprudenza in questi anni ha fatto rientrare le tradizioni religiose fra i giustificati motivi. Ecco perché c’è bisogno di una nuova legge che lo vieti in maniera specifica».
Intanto ha fatto esporre la gigantografia di Sakineh Ashtiani sulla facciata del ministero.
«Mi pareva giusto mobilitare l’opinione pubblica e sollecitare le autorità iraniane a riflettere su quanto sia lesiva dei diritti umani la barbarie della lapidazione».
Sulla lapidazione siamo d’accordo.E anche la pena di morte è una barbarie. Ma lei ha dichiarato: «Finché Sakineh non sarà salva o libera il suo volto ci guarderà dal palazzo del governo italiano». Perché la magistratura iraniana dovrebbe liberare una donna condannata per l’uccisione del marito?
«Il caso presenta molti punti oscuri. Tenga presente che il capo d’imputazione è stato cambiato due volte: prima adulterio, poi concorso in omicidio. Questo fa presumereun processo sommario e una sorta di accanimento».
Per le pari opportunità avrebbe dovuto intervenire anche a favore di Teresa Lewis, la ritardata mentale giustiziata in Virginia per aver partecipato all’omicidio del marito e del figliastro.
«Non creda che non mi sia mobilitata. Il giorno prima dell’esecuzione ero a New York per partecipare alla 65ª assemblea generale delle Nazioni Unite. Mi sono informata sui possibili passi da compiere, però mi è stato spiegato che non c’era più nulla da fare».
A un convegno ebbe a dichiarare che «i gay sono costituzionalmente sterili» e fu ricoperta d’insulti. Ora ci va d’amore e d’accordo. Sono cambiati loro o è cambiata lei?
«Ci fu un equivoco sull’avverbio. Citavo il professor Francesco D’Agostino, giurista, il quale sostiene che non vi sono ragioni sociali per dare riconoscimento alle coppie omosessuali, in quanto questo tipo di convivenze, pur essendo lecite, non hanno rilievo pubblico, perché non esiste un autentico interesse della società a tutelare unioni che sono costitutivamente sterili. In seguito è maturato un rapporto lei?
sereno e schietto con quel mondo. Il governo Berlusconi è in assoluto quello che ha fatto di più contro la discriminazione degli omosessuali».
Appena insediata rifiutò il patrocinio al Gay pride. Oggi lo darebbe?
«Non lo darei nemmeno oggi. Non credo che le istituzioni debbano patrocinare una manifestazione che è stata ripetutamente contrassegnata da oscenità e da insulti rivolti al Papa e alla Santa Sede».
Anna Paola Concia, parlamentare del Pd, dice che state lavorando alla legge contro l’omofobia già bocciata un anno fa.
«È una collega di grande equilibrio e sensibilità. Stiamo studiando una formulazione che sia inattaccabile dal punto di vista costituzionale e che contempli un’aggravante per tutti quei reati che vengono commessi con finalità di discriminazione in base all’orientamento sessuale, alla disabilità o all’età».
Leggo sul sito del suo ministero:«L’omofobia è una malattia dalla quale si può guarire». È convinta di questo?
«Può essere un atteggiamento o una malattia. Dipende dal grado di avversione».
Allora dovrà far correggere per decreto lo Zingarelli 2011, che alla voce «omofobia » scrive: «Avversione per l’omosessualità e gli omosessuali». Nessuno accenno a malattie da curare.
«Convocheremo una commissione d’esperti per capire se dietro l’omofobia c’è una malattia. Se dovessi essermi sbagliata, chiederei scusa».
Per «avversione» lo stesso dizionario dà questa definizione: «Viva ostilità, antipatia». Perché dovrebbe essere reato nutrire antipatia verso gli omosessuali ma non, chessò, verso i cacciatori?
(Si spazientisce). «Che c’entra? Stiamo parlando di fattori discriminanti previsti dall’articolo 10 del Trattato di Lisbona: razza, lingua, origine etnica, religione, orientamento sessuale, età e disabilità. Se uno picchia una persona per il colore della sua pelle, io credo che la legge debba marcare il disvalore sociale di quell’azione».
Stiamo parlando di antipatia, non di botte.
«L’avversione può arrivare anche alla violenza».
Così finisce per dar ragione a Camillo Langone, che s’è scagliato contro «la destra alla moda omosessualista di Mara Carfagna».
«Facciamo chiarezza: l’aggravante scatterebbe solo per i reati, non certo per le opinioni. Sono contraria a sanzionare i reati d’opinione».
Di quali diritti pensa che debbano godere i gay?
«Il diritto di andare a trovare il partner in ospedale o in carcere. Il diritto di subentrargli nel contratto di locazione in caso di morte. E altri».
La aiuto. Baciarsi in pubblico?
«Il cattivo gusto si può riscontrare anche nelle coppie eterosessuali. Questi non sono diritti, ma libertà. La Costituzione prevede la libertà di baciarsi in pubblico».
Dichiarare la propria omosessualità agli alunni durante l’ora di lezione nella scuola pubblica?
«Non mi sembra che sia previsto come reato».
Far proselitismo all’insegna dello slogan «Gay è bello»?
«Non rientra fra i diritti di cui parlavo prima, ma anche questo non è un reato».
Sposarsi?
«No».
Adottare bambini?
«No».
Poter riconoscere legalmente figli avuti mediante fecondazione eterologa e uteri in prestito?
«È vietato dalla legge 40 del 2004. E se non ci fosse già stato un referendum a confermarla, sarei assolutamente contraria».
Chi ha paura della parità nei luoghi di lavoro?
«Tutte le persone che tendono alla conservazione dello statu quo. Gli studi dimostrano che se 100.000 donne potessero accedere al mercato del lavoro il prodotto interno lordo crescerebbe dello 0,4%. Spero che ne tenga conto anche il nostro ministro dell’Economia, Giulio Tremonti: al di là degli aspetti di equità, includere conviene».
Nell’estate di due anni fa Massimiliano Cordeddu chiese il suo intervento affinché agli uomini fosse offerta la pari opportunità di partecipare ai concorsi Rai per annunciatrici tv. Non mi risulta che siano in servizio «signorini buonasera». Dal che si deduce o che le pari opportunità a volte sono impossibili o che il suo ministero conta poco.
«Uno c’è stato: Livio Beshir. Ma i cambiamenti radicali necessitano di tempo per essere attuati. Non credo che gli annunciatori della Rai siano fra le priorità del Paese».
Mestiere difficile, le pari opportunità. Una lettera anonima contenente escrementi è appena stata recapitata ad Alessandra Servidori, consigliera nazionale di parità al ministero del Lavoro.
«Un atto ignobile. L’ho incoraggiata a continuare con lo stesso impegno».
L’affronto peggiore capitato a lei da quando è entrata in politica qual è stato?
(Ci pensa a lungo. Sospira). «L’affronto peggiore... Uhm. Non sono il tipo da star lì a rimuginare. Me ne infischio alla grande. Ho un carattere strutturato e spalle larghe, a dispetto dell’apparenza. Mi sento ferita ogniqualvolta si distorce la realtà dei fatti».
Ha poi querelato Sabina Guzzanti per le volgarità dette sul suo conto due anni fa in piazza Navona, quando durante una manifestazione "No Cav" la paragonò a Monica Lewinsky?
«C’è un’udienza a breve, ma non ricordo quando».
E ha chiesto un milione di euro di risarcimento?
«Sì. Ma non voglio nemmeno occuparmene, se ne interessano solo gli avvocati. Il mio unico obiettivo è ristabilire la verità, dimostrare che quell’accostamento fu diffamatorio, ingiurioso e non rispondente al vero. Se solo la Guzzanti producesse due righe in cui chiede scusa per le infamie pronunciate e riconosce la loro falsità, chiuderei la questione già domattina. Quello che m’interessa è un pezzo di carta in cui, nero su bianco, rimanga a futura memoria che ho subìto senza motivo una violenza verbale inammissibile».
Riferendosi alle sue pose sexy uscite sul mensile "Maxim" nel 2001, il padre della Guzzanti, Paolo, già deputato del Pdl, l’ha definita «calendarista alle Pari opportunità».
«Non era un calendario, bensì un pubbliredazionale per la Ponte Vecchio Gioielli, un’azienda orafa di Firenze. E non mi fu nemmeno pagato, perché avevo un legame personale col titolare. Lo feci volentieri come amica sua e della famiglia».
Non si sprecano i talenti naturali in questo modo.
«Mi faceva piacere dare un contributo a un’azienda in crescita».
Quando rivede in circolazione le immagini non prova un po’ di fastidio?
«No, perché non ho fatto nulla di male. Ai miei nipoti un giorno potrò dire: guardate quant’era carina nonna.
A volte non si sente perseguitata dalla sua bellezza?
«L’aspetto gradevole è un vantaggio, non uno svantaggio».
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