Milano - Sono di parte. Questa non può essere una recensione, al massimo un retroscena. Una specie di backstage dove finiscono i pezzi di racconto rimasti fuori pagina. Un po’ come i preziosissimi dietro le quinte dei calendari scollacciati. Se il soft porn fosse un prosciutto, qui saremmo al culatello. Tanto vale squarciare il velo, abbattere lo schermo del pc e parlare chiaro. L’autore di Unhappy hour non è uno sconosciuto. Non solo perché nome, faccia e interviste veleggiano per i mari dell’informazione. C’è dell’altro.
Tra me e lui ci sono un paio di metri, lo spazio che divide un desk dall’altro, qui, al quinto piano di via Negri. E se mi metto a scrivere qualche riga sulla sua opera prima non è (solamente) per paura di ritorsioni redazionali (potrebbe destinarmi solo gli odiati turni mattutini e privarmi della chiavetta, pezzo di plastica che mi schiude il mondo dei cibi preconfezionati). C’è dell’altro. E non parlo di royalties.
Tutto è iniziato un anno fa abbondante. Era l’inverno del 2008 e Andrea cercava un’idea, un fatto di cronaca, per realizzare una piccola video inchiesta. Qualcosa di interessante, qualcosa che si infilasse nelle zone traffico limitato dell’informazione, un soggetto che stimolasse e raccontasse. Ecco, volevamo raccontare un mondo, quello dei giovanissimi, difficilmente penetrabile. Impresa ardua. Più che altro perché significava ammettere a noi stessi una cosa: stavamo invecchiando. Parole, linguaggi, codici, cocktail, droghe e locali a noi sconosciuti. Un pianeta nuovo da esplorare senza Lonely Planet.
Inizia così il viaggio di Anfetamine a colazione, un trip senza filtri nel mondo dei ragazzi. Giovani e giovanissimi, normali, abitanti della porta accanto, vicini di banco. Tutti cultori di un culto secolarizzato di Dioniso. Alcol, marijuana, hascisch, mdma, ecstasy e anche viagra. Tutto mixato, moderno minestrone lisergico, per accaparrarsi un biglietto di andata (e a chi va bene pure di ritorno) nella legione straniante. Anche di mattina, come fosse a colazione. Che oltre a essere una citazione del libro di Marina Ripa di Meana Cocaina a colazione, lunga teoria di deliri dalla Roma di Franco Angeli e Mario Schifano, è un’efficace didascalia dei nostri incontri giornalistici. Milano, centro città, una mattina di inverno: aliti impastati di vodka, giri infiniti di bong caricati a erba, pillole colorate come caramelle di zucchero che frusciano da una mano all’altra. Mentre gli amici scemi e sfigati sono a scuola a scartabellare dizionari. E poi l’esibizionismo stupefacente. Le vite spericolate di giovani minorenni che vogliono apparire in video, raccontare le loro esperienze, farsi vedere mentre arrotolano una sigaretta psicotropa e farsi immortalare in “botta”, come il più scontato e venerato dei vip. Esibizionismo stupefacente.
Se Anfetamine a colazione è la protasi, Unhappy Hour è l’apodosi. E’ nato così il viaggio nel mondo delle ore infelici, rovescio e diritto di quest’idea distorta di catena di montaggio del divertimento. La video inchiesta venne pubblicata sulle pagine del Giornale.it e il caso sollevato, dopo una breve parentesi televisiva, approdò anche nella rubrica di Francesco Alberoni. Per poi arrivare, più di un anno dopo, sugli scaffali delle librerie di tutto il Paese, in questo bel romanzo intriso di cronaca, dove la narrativa si fonde con il verosimile e tutto puzza dei bicchieri appiccicosi dei risvegli impastati dall’alcol. Sesso, droga e alcol. Dissipazione e disperazione. Quella taciuta, dissimulata. Nascosta sotto veli bianchi di cocaina. Una moderna epopea dei telefonini bianchi, in cui il vizio è sceso tra di noi, comuni mortali e piccoli borghesi, divenendo seriale, popolare e quasi doveroso. Unhappy hour racconta anche tutto questo. Racconta la Milano da bere, da sniffare e da bruciare. Quella città veloce che non si ferma mai a riflettere. “Stiamo diventando come degli insetti, simili agli insetti”, canta il Battiato con cui spesso molestiamo la redazione. E quella bottiglia di alcolico che spunta tra i palazzi della Milano anni 80, in uno spot che è diventato un pezzo della carta d’identità di questa assurda città, ormai fa solo sorridere. Di tenerezza.
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