Ora la domanda su Pompei è una: che fare con i resti del patrimonio crollato? Mentre la politica si occupa di cercare la sfiducia al ministro (incolpevole) Sandro Bondi, noi lanciamo unidea: vendiamoli. Prendiamo i detriti ormai inutilizzabili in qualunque altro modo, dividiamoli in tanti piccoli lotti e mettiamoli in vendita: non allasta, ma con un listino proprio. Pezzi da cinquanta, cento, duecento, cinquecento e mille euro. Con quei soldi si potrebbe finanziare la manutanzione del sito archeologico e se anche non fossero sufficienti sarebbero comunque utili perché andrebbero a unirsi a quelli già destinati a tale scopo.
Già, perché se non si mettono in vendita, che fine fanno? Sappiamo che ricostruire è praticamente impossibile, allora il rischio, il grande rischio, è che finiscano comunque sul mercato, magari sottobanco e magari senza che lo Stato, né le amministrazioni locali possano utilizzare quei soldi per il bene della stessa Pompei.
Qualcuno storcerà il naso, certo. Oddio, non si tocca il nostro patrimonio, non si mette in vendita un pezzo così pregiato della nostra storia. Come no, così pregiato che tutti, diciamo tutti, per decenni se ne sono così disinteressati da lasciarlo marcire al punto da crollare. Perché tutti se la prendono a sproposito con lattuale ministro, ma è vero che dal dopoguerra a oggi nessuno ha fatto veramente qualcosa per uno dei siti archeologici più importanti dItalia. Allora non ci sono scuse, vere. Se non la solita mania italiana di dire sempre che una cosa non si può fare, senza spiegare davvero perché. È il nostro modo sciocco di pensare che così aiutiamo la nostra storia: bugie, solo bugie. Mettere in vendita le nostre bellezze, specie quelle così rovinate da non poter più essere messe in piedi, è lunico modo per salvare il resto.
I tedeschi si sono venduti a pezzi il muro di Berlino. Ancora oggi chi frequenta la capitale tedesca trova sulle bancarelle pezzi (falsi) di quel pezzo di storia preso a picconate il 9 novembre del 1989. Dici: ma non è la stessa cosa. Verissimo.
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