Tra un anno esatto - l'8 agosto 2008 - cominceranno le Olimpiadi di Pechino e oggi le autorità daranno solennemente il via al conto alla rovescia con una serie di cerimonie pubbliche. Purtroppo per loro, numerose organizzazioni internazionali hanno deciso di approfittare dell'occasione per denunciare le gravi inadempienze della Cina rispetto agli impegni assunti al momento dell'assegnazione dei Giochi: libertà di stampa e di espressione, rispetto dei diritti umani, meno esecuzioni capitali e più cura dell'ambiente. La prima, inscenata lunedì dai Reporter senza frontiere per protestare contro gli ultimi episodi di repressione, si è conclusa in maniera inquietante: alcuni arresti e fermo e schedatura di tutti i giornalisti partecipanti alla conferenza stampa. Nel fare il giro del mondo, questa notizia ha naturalmente oscurato l'ottimistica relazione delle autorità cinesi sullo stato di avanzamento dei lavori e riaperto - per adesso ancora in sordina - la discussione su un ipotetico boicottaggio dei Giochi se Pechino non si deciderà ad adottare metodi più liberali nei confronti dei dissidenti.
Il rifiuto a partecipare alle Olimpiadi per ragioni politiche ha due precedenti: l'astensione dei principali Paesi occidentali (l'Italia, come spesso accade, fece le cose a metà, e ne approfittò anche per fare incetta di medaglie) dalle Olimpiadi di Mosca del 1980 in segno di protesta per l'invasione sovietica dell'Afghanistan, e la speculare ritorsione del blocco comunista nei confronti dell'America in occasione dei Giochi di Los Angeles quattro anni più tardi. Benché si fosse in piena guerra fredda, tuttavia, nessuna di quelle iniziative ebbe l'impatto che avrebbe, in una atmosfera molto più rilassata e di sempre più intensi rapporti economici, un no alle Olimpiadi cinesi, che per avere un senso dovrebbe coinvolgere un numero ragguardevole di Paesi con un elevato potenziale sportivo. La Cina, infatti, considera queste Olimpiadi come una consacrazione del suo ingresso a pieno titolo nel consesso delle Grandi Potenze, come un riconoscimento della validità del suo sistema, addirittura come una definitiva legittimazione del regime. Dopo avere investito somme stratosferiche per rinnovare la capitale e dotarla di impianti sportivi adeguati, essa considererebbe un rifiuto di partecipare ai suoi Giochi quasi alla stregua di una dichiarazione di guerra, che potrebbe spingerla a ritorsioni irrazionali: per esempio, uno stop all'acquisto di Buoni del Tesoro americani, con conseguenze catastrofiche per l'economia degli Usa, o una guerra commerciale con l'Europa da cui usciremmo tutti perdenti.
Bisogna dire che l'idea del boicottaggio, peraltro, è abbastanza impopolare anche in Occidente, soprattutto tra gli sportivi che ormai guardano a Pechino come al loro prossimo traguardo. Restare a casa significherebbe frustrare le ambizioni di tutta una generazione di atleti, che poi dovrebbero aspettare Londra 2012 per rincorrere un alloro olimpico. Ma questo non impedisce a un certo numero di politici e di attivisti, di destra come di sinistra, di sostenere che Pechino 2008 rappresenta una occasione unica per strappare al governo cinese una maggiore tolleranza e aiutare così quella evoluzione politica che tutti auspicano, ma che finora è rimasta nel libro dei sogni. Forse nessuno auspica veramente il «tutti a casa», ma molti sono convinti che bisogna perlomeno tentare un'operazione di «brinkmanship», cioè di incutere abbastanza paura ai cinesi perché si rassegnino - in nome della «faccia» così importante in Oriente - a fare delle concessioni.
Se i governi occidentali ascolteranno questi «falchi dei diritti umani», rimane da vedere. A parole, tutti rinfacciano alla Cina i suoi comportamenti da Paese totalitario, le persecuzioni religiose, la sistematica censura di internet. Nei fatti, continuano a collaborare con lei in quasi tutti i campi senza badare molto per il sottile, consci come sono della delicatezza degli attuali equilibri.
Livio Caputo
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