Come si arriva all’ottimo? Come si realizza il sistema più efficiente per rispondere ai bisogni dei cittadini? Spesso sono i piccoli cambiamenti che originano le grandi differenze e, sulla carta, siamo davanti a una vera e propria rivoluzione che potrebbe rivelarsi assolutamente benefica per uscire pacificamente dal vicolo cieco in cui l’Italia si era andata a cacciare. La cosa è anche economicamente dimostrabile. Per comprendere meglio il perché di questo punto di arrivo è necessaria una premessa: il sistema politico «buono» deve partire dal presupposto che il governo debba essere motivato. Senza considerare pie speranze di governanti «illuminati», un esecutivo «medio» deve temere l’alternanza, avere vincoli di bilancio e poter agire: se sa di mantenere il potere non fa nulla, se non ha controllo delle risorse le spreca, se non può decidere è vittima dei localismi.
Il sistema della vecchia Dc rientrava nella categoria dei governi «passivi» in quanto non aveva modo di temere per la sua posizione, dal momento che l’alternativa rappresentata dal Pci non era di immediata minaccia. Il governo che non si muove non è il peggiore possibile ma, alla lunga, depone semi di debolezza strutturale, come la mancanza di riforme per adeguarsi ai cambiamenti internazionali o coraggiosi progetti infrastrutturali nazionali. Tali negligenze, come si può vedere oggi, prima o poi domandano il conto.
Gli anni Ottanta hanno portato abbondanza economica: il governo ha purtroppo scoperto che era semplice spendere di più di quanto si incassava emettendo debito sotto forma di Bot. Tali risorse, in mancanza di un serio vincolo di bilancio, sono andate puntualmente sprecate: il debito pubblico è esploso e il Paese si è riempito di baby pensionati e di lavori pubblici inutili iniziati solo per lucro.
Lo scivolo verso il disastro sembrava inevitabile ma per fortuna l’ingresso nell’euro ha rappresentato la prima medicina, sotto forma di una camicia di forza costituita dal vincolo di bilancio. In pratica non si poteva più spendere liberamente, pena l’uscita dai parametri di Maastricht. Forse la classe politica non aveva compreso appieno il cambiamento, ma con gli anni ci si è finalmente resi conto che un euro messo da una parte andava tolto da un’altra e non stampato. Peccato che questa consapevolezza abbia coinciso con una grande frammentazione dei partiti che ha provocato l’inazione e il conflitto. Infatti, a causa del vincolo di bilancio, vi è per forza qualche interesse che deve essere danneggiato se si vuol agire: i referenti di questo interesse mettono in atto il diritto di veto favorito dalla frammentazione e quindi non si fa nulla. È questa la fotografia degli ultimi anni: impotenza dell’esecutivo con successo e proliferazione di proteste e barricate.
La creazione di due grandi partiti potrebbe rappresentare la quadratura del cerchio: si tratta di un’ulteriore camicia di forza che potremmo chiamare «vincolo di dissenso», annullando la possibilità di veto di un partitino minore ed al contempo mantenendo la motivazione al buon governo data dal timore dell’alternanza con l’altra forza.
Il fatto che l’approdo a questa soluzione sia stato su base volontaria e non imposto esternamente con il referendum (che diventa a questo punto indifferente) è un’ulteriore garanzia di tutela ed è un punto di arrivo migliore della grande coalizione, che rischia di non avere alternative temibili, diventando alla lunga passiva. È una grande occasione.
È possibile che a sorpresa l’Italia sia arrivata, se pur in modo arruffato e non lineare, al termine della sua transizione verso un governo efficiente. Ci sono volute due camicie di forza ma si sa, l’italiano è irrequieto.
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