In vetta e nell'abisso con gli alpinisti di Stalin

I fratelli Abalakov furono gli eroi delle scalate sovietiche. Ma non sfuggirono alla dittatura

In vetta e nell'abisso con gli alpinisti di Stalin

Nascono, rispettivamente, nel 1906 e nel 1907. Il primo, Vitalij, diventa un ingegnere: preciso, taciturno, attento alle regole, inflessibile. Il secondo, Evgenij, diventa un artista: affascinante, intrepido, fantasioso, leggero. Entrambi, Vitalij ed Evgenij Abalakov (anzi, per molto tempo l'ordine di fama e importanza è inverso: Evgenij e Vitalij) conoscono la realtà ben prima della maggiore età: nel 1920, quando la Rivoluzione arriva anche nella loro Krasnojarsk, sulle rive del fiume Enisej, questi due fratelli siberiani, già orfani, vedono le guardie rosse arrestare lo zio Ivan, colpevole di essere un commerciante importante. I ragazzi tentano di difenderlo, e vengono portati via anche loro.

Solo l'intervento della zia, che corrompe le guardie con vodka e cibo, li salva. E spalanca il loro destino: scalare le montagne e diventare gli alpinisti più celebri dell'era sovietica. Per l'Urss i due fratelli diventano degli eroi, di più: i costruttori del mito dell'alpinismo rosso. Scalano vette inesplorate a cui danno nomi rigorosamente bolscevichi: Pic Lenin, Pic Stalin (che sarà ribattezzato Pic Kommunizsma e poi, dopo l'indipendenza del Tagikistan, Pic Ismail Samani), Pic Pobedy (cioè Picco della Vitoria), Picco Costituzione di Stalin, Picco del Soldato dell'Armata Rossa, Picco dei Compagni, Picco del Komsomol, Picco dei Commissari rossi... E, siccome la loro storia, fra ascese e cadute rovinose, sembra ricalcare la Storia del loro immenso Paese, uno dei due fratelli finisce nel meccanismo perverso delle Purghe staliniane, mentre l'altro è vittima di una morte tanto banale quanto, per certi versi, misteriosa.

Se tutto questo suona come un romanzo, è anche grazie al lavoro di Cédric Gras, geografo francese che ha lavorato per anni in Russia e che si è immerso negli archivi dell'ex Kgb per riesumare le vite dei fratelli Abalakov e scrivere Gli alpinisti di Stalin (Corbaccio, pagg. 252, euro 22; in libreria da oggi), con cui ha vinto il Prix Albert Londres 2020. Evgenij e Vitalij hanno esistenze all'apparenza complementari. Da giovane scultore, a Mosca Evgenij segue le lezioni di Vera Mukhina, che nel 1937 crea L'operaio e la kolchoziana, uno dei simboli dello stalinismo e del realismo socialista. Lui però diventa perfino più famoso dell'insegnante. Del resto, Evgenij, che a scalare è impareggiabile (da piccolo, quando arrampica sugli Stolby della sua Siberia, si guadagna il soprannome di Tamias, un piccolo scoiattolo artico), è colui che ha portato il nome di Stalin in cima al mondo, fisicamente: il 3 settembre del 1933 fa sventolare l'orgoglio comunista sui 7495 metri di quella che, all'epoca, è la terza vetta più alta al mondo a essere conquistata.

Per capire come ci sia arrivato, bisogna fare un passo indietro. In Russia prima, e in Urss poi, l'alpinismo è inesistente. Peggio: dopo la rivoluzione è malvisto, in quanto passione tipica della borghesia europea. Ma... il compagno Lenin, il Padre della Patria, è stato in esilio in Svizzera e lassù, fra le montagne, ha iniziato ad apprezzare la pratica, convertendo anche qualche alpinista straniero al comunismo. Perciò, in onore del passato di Lenin, alcuni ex compagni di esilio fondano la Società del Turismo e dell'Escursionismo proletario. Ed è qui che, nonostante l'assurdità del contesto, la stella dei fratelli Abalakov inizia a splendere. È qui che Vitalij conosce Valentina Ceredova, dalla quale non si separa mai più, ad eccezione del periodo in cui finisce in carcere: nell'inverno del 1938, quando lui viene arrestato, lei lo rinnega prontamente, per salvare la vita a sé stessa e al figlio; poi, però, insieme a Evgenij assolda un avvocato, con cui le riesce un'impresa eccezionale, ovvero fare assolvere il marito. Quando Vitalij esce di prigione, nel 1940, i due tornano a vivere insieme.

Tornando all'alpinismo «proletario», accade che Nikolaj Gorbunov, che all'inizio degli anni Trenta si occupa della pianificazione economica, decida di avviare l'esplorazione del Pamir, montagne altissime nel mezzo del Caucaso. E, per ingraziarsi il grande capo, affida all'«unità 29» la missione di conquistare il Pic Stalin. L'anima di questa unità speciale è Evgenij: solo lui può portare a termine un'impresa praticamente suicida, vista la scarsità di preparazione, di tecnica, di materiali e di approvvigionamenti. Ce la fa, e diventa un eroe. Vitalij non c'è quella volta, ma c'è anche lui sul Pik Lenin (7134 metri), quando bisogna portare il busto del rivoluzionario in cima alla vetta per ordine di Nikolaj Krylenko, Commissario del Popolo per la Giustizia, uno dei boia di Stalin, anche lui con la passione per la montagna. Per la propaganda, quello che conta è l'aspetto collettivo della spedizione: la scalata degli alpinisti sovietici è l'ascesa dell'ideale bolscevico, il trionfo del gruppo sul singolo.

In questa ottica surreale, su Vitalij (che nel 1938 è direttore della scuola per alpinismo di Adyl-Su) cade un'accusa ancora più surreale: «avere ostacolato l'alpinismo di massa per riservarne la pratica solo a pochi eletti». Rischiare la vita per portare una statua di Lenin a oltre settemila metri per la dittatura non è abbastanza. Finisce alla Lubjanka, dove lo interrogano per dieci giorni consecutivi. Prima firma quello che vogliono fargli confessare, poi ritratta. Gira varie prigioni, ma non cede. Cedono invece, uno a uno, da Krylenko in giù, quasi tutti gli esponenti dell'alpinismo sovietico, che crolla sotto le Purghe staliniane. Tutti, tranne uno: Evgenij. Il quale si adopera per far liberare il fratello e, in pieno Terrore, continua a conquistare montagne in nome del dittatore e a vincere premi con le sue opere d'arte.

Durante la Seconda guerra mondiale, Evgenij combatte, mentre Vitalij, che ha perso venti falangi in una disastrosa spedizione, resta a casa. Inizia ad occuparsi di ciò per cui diventa poi celebre: sicurezza, materiali e tecniche delle scalate. Scrive manuali, inventa attrezzature e dirige la squadra di alpinismo dello Spartak che, nel dopoguerra, vince competizioni su competizioni.

Ma il dopoguerra è senza Evgenij: l'eroe muore nel 1948, ufficialmente per una fuga di gas da uno scaldabagno. Il testimone è passato a Vitalij, che muore nel 1986. C'è ancora una tecnica di discesa su ghiaccio che porta il suo nome. A nessuno dei due riesce di conquistare l'Everest, il sogno di ogni alpinista.

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