Camicia azzurra senza cravatta, blazer blu con bottoni d’oro, il distintivo di Forza Italia all’occhiello, Cesare Previti si alza quando entriamo nella sua cella ed è commosso: con me sono l’ex presidente del Senato Marcello Pera e Iole Santelli, ex sottosegretario. Il luogo non è una cella, né un parlatorio, ma una specie di sgabuzzino delle scope, un metro e mezzo per un metro e mezzo, con il gentilissimo direttore del carcere di Rebibbia che è tanto cortese quanto fermo nel far rispettare le regole. Da lui apprendo che Previti è stato immediatamente sottoposto a visita medica e che io devo subito disattivare il telefonino che strimpella nell’imbarazzo generale.
Sono arrivato a Rebibbia nel primo pomeriggio dopo aver letto sulle agenzie che di buon mattino Cesare Previti si era dimesso dal Parlamento e si era presentato con la sua valigetta all’ingresso del carcere, praticamente auto-arrestandosi. «Quando i giornalisti mi hanno visto uscire di casa stamattina con la valigia in mano hanno pensato che scappassi, ma in realtà avevo maturato questa decisione: di tagliare corto dopo aver sentito la sentenza di condanna e presentarmi al carcere romano».
E i figli? La moglie? Gli amici? Cesare Previti detenuto non sembra affatto diverso da quello che conosciamo da uomo libero. Risponde elencando tutti coloro che gli sono stati vicini, li nomina e gli si incrina la voce. Non tanto, appena appena, si riprende e dice: «Stamattina ho aspettato che si alzasse mio figlio Umberto che mi aveva lasciato una lettera bellissima». Marcello Pera ricorda Umberto come un bambino di nove anni, adesso ne ha quindici ed è alto, spiega Previti, un metro e ottantasette e gioca in porta. L’aria è cupa, facciamo tutti finta che sia una cosa normale trovarsi a Rebibbia tutti insieme, un viceministro, un ex Presidente del Senato della Repubblica a trovare un detenuto che è uno dei fondatori del partito che è stato sconfitto da pochi giorni in modo molto controverso. C’è un’ariaccia, dico io, un’ariaccia di inizio regime. Previti allarga le braccia e dice «Facciamoci questi cinque anni». Poi spiega che intende quelli della legislatura e non quelli di galera che, a rigore, sono sei. Penso al Caimano di Nanni Moretti e al sogno delle sinistre: vedere in galera, in mancanza del patibolo e di piazzale Loreto, i berlusconiani, queste creature come è stato scritto ad imitazione di Goebbels anche fisicamente diverse, riconoscibili. Penso al Caimano che si conclude con il sogno morettino e girotondino di far condannare Berlusconi a sette anni, con la barbara aggiunta dei poveri magistrati aggrediti dalle folle della infame plebaglia di destra, che poi saremmo noi. Parliamo di politica, di Quirinale, di mosse da fare e mosse da evitare, e ci rendiamo conto tutti, Previti per primo, che tutto suona falso, con quei bravi agenti carcerari che sono in fila dietro la porta aperta, pieni di rispetto e anche pieni di uniformi, e dietro di loro l’ambiente è pieno di cancelli che cigolano, di porte che si chiudono con quel rumore con cui soltanto le porte del carcere si chiudono.
Fuori è bel tempo, tempo di primavera. E una dozzina di reporter cacciatori con la telecamera a spalla cercano di beccare chi arriva con la macchina ai cancelli. Giornalisti annoiati e assiepati, come vuole il copione. Arrivo davanti a una grande porta blindata e mostro la tessera di parlamentare. Mi accolgono tutti con grande rispetto e anche cortesia. Consegno il documento e così fanno anche Marcello Pera e Iole Santelli. Il direttore ci fa strada, fra due ali di agenti e di sottufficiali e alcuni ufficiali. Attraversiamo un bel corridoio con vetrate luminose e affreschi che decorano le pareti, poi cancelli e portelloni blu. Non somiglia ad altri carceri che ho visto, tutto sembra molto civile, molto lindo e privo di angoscia. Poi arriviamo ad una porta che dà su un corridoio e il primo ambiente sulla sinistra è appunto quello sgabuzzino delle scope in cui Cesare Previti sta seduto in un angolo, davanti a un tavolo di legno pesante con sopra due volumoni rilegati. Si alza, abbraccia Pera, poi la Iole Santelli e poi me.
«Reggo bene, anzi benissimo. Ma quello che mi mette giù in ginocchio è la procedura, anche se tutti sono gentilissimi e pieni di premure. Io odio il cellulare, ma qui ti rendi conto che non puoi avere il cellulare. Devi firmare, devi entrare in un meccanismo e capisci che è una specie di nastro trasportatore trainato da ruote dentate in cui ogni dente della ruota è un passaggio burocratico, penale, regolamentare, e il nastro va avanti e ti trasporta dentro, sempre più dentro e senti questo fatto fisico, dell’allontanamento da ciò che eri fino a poche ore fa». Perché Previti abbia deciso di andare a Rebibbia appare chiaro: i suoi avvocati hanno scoperto all’alba di ieri che a Milano era stata preparata una grossa trappola per mostrare Previti tradotto in ceppi ed esposto alla gogna, così come piacerebbe ai girotondini. L’agguato è stato scoperto quasi per caso e compreso interamente verso le undici di ieri mattina quando si è visto che una parte della pratica era ferma e bloccata. Capita l’antifona e fiutata la trappola i legali di Previti hanno deciso il contropiede: lasciare Milano, intesa come magistratura milanese, con un palmo di naso, arrivare al carcere romano con spazzolino e dentifricio e chiedere per così dire diritto d’asilo carcerario in vista dell’immediato avvio della procedura necessaria per chiedere e ottenere gli arresti domiciliari. Gli chiedo dove dormirà. «Beh, certo, non in albergo. Sarà una cella qui, da solo». Mi affaccio oltre la porta del bugigattolo per vedere come sono fatte le celle e vedo la prima, con la porta aperta, un tavolo, un letto e un detenuto africano che si sta togliendo una T-shirt e che vedendomi sulla soglia mi fa un cenno di saluto, quasi un invito ad entrare per visitare questo domicilio provvisorio. Siamo infatti in una zona provvisoria, di smistamento, una sorta di astanteria del carcere e il prigioniero Previti Cesare è là che parla, parla di politica, parla di Quirinale, elezioni, parla di tutto tranne del fatto che stiamo parlando dall’interno di Rebibbia dove lui si è presentato di buon mattino, come in un film americano, con la valigetta e un ricambio di biancheria.
Poi torna alla vicenda giudiziaria. Elenca freddamente tutti gli elementi che lui considera frutto di un piano artatamente fabbricato contro di lui: «Il guaio è che noi con il nostro governo non abbiamo modificato affatto il nostro sistema giudiziario che è sempre lo stesso, un meccanismo simile a quello elettorale per cui alla fine tu non sei autorizzato a verificare e contare le schede annullate e devi fidarti dei verbali. Nella giustizia è lo stesso. Lascia perdere il caso mio. Ho studiato il caso di quel poveraccio, come si chiama, quello pugliese? Ah, sì, Morrone. Be’, questo qui dice io la sera del delitto ero a casa e può testimoniare tizio, caio, sempronio e mia madre ed ero vestito di bianco. Poi arrivano due pentiti i quali dicono che lui era vestito di nero e che l’hanno visto sul luogo del delitto. Allora incriminano per falsa testimonianza tutti quelli che lo avevano visto a casa sua e lo condannano. Poi scoprono l’errore e mandano tutto in Cassazione, la Cassazione per prudenza rispedisce alla Corte d’Appello che ricondanna. Poi torna in Cassazione che rispedisce all’Appello che finalmente riconosce che questo disgraziato era innocente. Sai quanti anni s’è fatto quel poveraccio? Quindici. E perché? Perché noi non abbiamo un sistema giudiziario fatto di prove, indizi, testimonianze, ma un sistema giudiziario fatto di costruzioni, teoremi, racconti, decisioni politiche. E allora ti puoi fare vent’anni a causa della paura che un livello della giustizia ha di esporsi di fronte ad altri livelli, ed è così in tutta Italia». Dico che in fondo è la stessa Italia di Manzoni, della Colonna infame e anche di Pinocchio. «Sì, dice Previti spingendo sullo schienale della piccola sedia su cui è intrappolato. Ma noi non abbiamo Manzoni, noi non abbiamo narratori della disgrazia italiana, abbiamo soltanto una pletora di conformisti che stanno dalla parte dell’errore giudiziario perché godono politicamente, godono nel loro odio, nei loro rancori, non sanno stare contro il vero potere, sono parte intrinseca e cantori del potere che conta».
Racconta di questa serata che ha preceduto l’auto-arresto, la visita a casa di Sandro Bondi e tanti altri, lo stato di terribile tristezza di sua moglie, che lo angoscia profondamente e di cui non riesce a parlare, e poi parla della figlia in America: «Ventidue anni, laureata a pieni voti, già con un master, a Washington che ha chiamato, ha detto corro, vengo subito, ho detto calma, resta là, non ti muovere, manda avanti la tua vita, io sto benissimo, non ti preoccupare».
Si tiene su descrivendo la forza del suo carattere proprio nel momento in cui sente che il suo carattere sta cedendo: «Io sto benissimo. La notte scorsa ho dormito poco, sono andato a letto alle tre e mezza, quando ho cominciato a pensare a questa ipotesi, presentarmi oggi a Rebibbia e mettere fine ad una partita di carte bollate, attese di una iniziativa che avrebbe potuto arrivare in qualsiasi momento del giorno o della notte. È stata dura e poi la decisione l’ho presa nel modo in cui l’ho presa».
Loda il proprio carattere, ma con preoccupazione: «Penso ai miei cari, a mia moglie, ai miei figli, ai miei amici. A tutti loro ho detto che sto benissimo, che sono forte e che ho mille risorse. Ed è vero. Ho mille risorse e mi preoccupo degli altri perché penso al loro stato d’animo. Ma sento anche il peso di una situazione che sfiancherebbe un gigante, ho paura di cedere, ho l’ansia di capire che cosa sta succedendomi dentro, che cosa accadrà nei prossimi giorni dentro quest’essere umano che sono io, qui dentro, in carcere». Usciamo dopo forti abbracci fra i liberi e il detenuto, con Marcello Pera ricaccia indietro un agguato delle lacrime e stringe i denti girandosi. Previti si comporta davanti al suo appartamento di due metri quadrati come un ospite che saluta gli ospiti dopo un piccolo ricevimento. Gli agenti della polizia penitenziaria e il direttore ci accompagnano verso i cancelli che ripercorriamo in ordine inverso fino all’uscita di questo luogo terribile che è sempre una prigione.
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