Spettacoli

Un viaggio all'interno della memoria collettiva e nelle viscere industriali del disastro annunciato

"Il saldatore del Vajont" di Antonio G. Bortoluzzi ci racconta le radici e le lunghissime conseguenze di una tragedia che interroga, tanti anni dopo, non solo i responsabili, ma tutti noi che viviamo di "tecnica"

Un viaggio all'interno della memoria collettiva e nelle viscere industriali del disastro annunciato

Alle 22 e 39 del 9 ottobre 1963, sessant'anni fa, all'improvviso cede. Il lento movimento degli strati di roccia e fango del Monte Toc smette di essere centimetrico. Una massa enorme, 270 milioni di metri cubi di terra e roccia, una massa che per la mente umana - abituata a pensare in termini di chili e tonnellate - è incommensurabile, scivola dentro l'invaso della diga del Vajont.

La diga è un capolavoro di tecnologia, è l'orgoglio di chi l'ha progettata ma anche di tutti quelli che ci hanno lavorato. A doppio arco, alta 261 metri - è ancora oggi l'ottava diga più alta del mondo - è un capolavoro in calcestruzzo. Lo è talmente che reggerà all'urto quando, in circa 20 secondi, la frana arriva a valle, alla folle velocità di 110 km orari, generando una scossa sismica e riempiendo il bacino artificiale. Si creano allora tre onde. Una si dirige verso l'alto, lambisce le abitazioni di Casso, ricade sulla frana e va a scavare il bacino del laghetto di Massalezza. Un'altra punta verso le sponde del lago e distrugge alcune località nel comune di Erto e Casso. La terza (di circa 50 milioni di metri cubi di acqua) colpisce la diga, che rimase intatta ad eccezione del coronamento percorso dalla strada di circonvallazione che conduceva al versante sinistro del Vajont. La diga regge ad una forza venti volte più alta di quella per cui è stata progettata. Ma il risultato è che l'acqua si impenna verso l'alto e poi precipita nella stretta valle sottostante.

I 25 milioni di metri cubi d'acqua che riescono a scavalcare l'arco sradicano tutto quello che c'è nel greto sassoso della valle del Piave. Formano un muro solido in movimento che si riversa su Longarone, causando la quasi completa distruzione della cittadina (si salvarono solo il municipio e le case poste a nord di esso) e dei borghi limitrofi. È una strage: i dati ufficiali parlano di 1.910 vittime, ma non è mai stato possibile determinarne con certezza il numero. Perché? È stato stimato che l'onda d'urto dovuta all'inondazione - ma non esistono parole esatte per descrivere quel mostro liquido - fosse addirittura il doppio di quella generata dalla bomba atomica sganciata su Hiroshima. Molte delle vittime che si trovavano all'aperto sono state polverizzate. Di loro non si è trovato nulla.

Una tragedia annunciata, lo avevano fatto gli articoli di Tina Merlin che erano rimasti inascoltati. La frana del Monte Toc fu sottovalutata, era meglio credere nella speranza, resistente come il cemento, del boom economico e dell'energia infinita.

Dopo non restava che affrontare l'inaffrontabile, che non si può raccontare meglio di come fece Giampaolo Pansa che raggiunse la zona come inviato de La Stampa: «Scrivo da un paese che non esiste più: spazzato in pochi istanti da una gigantesca valanga d'acqua, massi e terra piombata dalla diga del Vajont. Circa tremila persone vengono date per morte o per disperse senza speranza; sino a questa sera erano stati recuperati cinquecentotrenta cadaveri. I feriti ricoverati a Belluno, ad Auronzo ed a Pieve sono quasi duecento. Un tratto dell'alta valle del Piave lungo circa cinque chilometri ha cambiato volto e oggi ricorda allucinanti paesaggi lunari. Due strade statali e una ferrovia sono state distrutte; pascoli, campi e boschi sono stati ricoperti di pietre e fango. È una tragedia di proporzioni immani».

Una ferita che è incancellabile per gli abitanti della zona, impressa nella memoria collettiva. Per capire quanto, basta leggere Il saldatore del Vajont (pagg. 130, euro 15) di Antonio G. Bortoluzzi e pubblicato da Marsilio. Bortoluzzi non fa un racconto enfatico, anzi, narra quasi per sottrazione. Accompagna il lettore come nelle visite guidate, che si possono fare attraverso la centrale nella grotta di Soverzene, le gallerie, il corpo della diga, il coronamento, la frana del Monte Toc... Ma ogni luogo si collega ad un ricordo, ad una narrazione fattagli dagli abitanti della zona, dai parenti. E così la disgrazia gigantesca, così grande che si fa fatica a comprenderla, viene ricondotta ad i suoi frammenti più piccoli, e terribilmente umani. C'è il ricordo ad esempio dello zio dell'autore, al tempo giovane militare del gruppo Lanzo dell'artiglieria di montagna. Finisce a scavare cadaveri in un paesaggio irriconoscibile. Ma non è la cosa più terribile, un giorno deve accompagnare un'emigrante tornata in Paese. Sa tutto dei morti e dei feriti ma vuol vedere cosa resta di casa sua. Vaga accompagnata dal giovane soldato. Non riconosce niente. Cerca di orientarsi con le cime dei monti, quelle non le ha toccate nessuno. Poi si ferma, guarda una porzione di pavimento che emerge dal fango. Mormora: «La mé cusína». Poi si inginocchia esausta, svuotata.

È solo una delle tante storie che emerge dal libro, un libro che si muove sempre nell'ottica di chi conosce il cemento, la saldatura, il cantiere. Nell'ottica di chi guarda la grandiosità indistruttibile dell'opera umana ma contemporaneamente ne vede tutti i limiti e la fallibilità. Perché il Vajont dovrebbe essere un monito, ma poi basta leggere la cronaca, dai ponti alle strade alle zone sismiche e il monito non pare sia arrivato. Per usare le parole di Bortoluzzi: «Il Vajont è qualcosa che riguarda il mondo e noi che nel mondo agiamo... Nell'era della tecnica si è reso immaginabile, progettabile e realizzabile un lago artificiale grandissimo a monte di una piccola diga, in una stretta e sperduta forra... Ma se poi riesci a fare quella cosa, vuol dire che sai immaginare l'inimmaginabile, e allora devi figurarti anche il resto, quello che potrebbe accadere, per salvare le vite umane».

Il saldatore del Vajont racconta questa tremenda tensione, tra ciò che possiamo fare e ciò che terribilmente facciamo, anche solo guardando basso e limitandoci a lavorare.

Ne esce una narrazione ben riassunta nella frase finale: «Non è sempre vero che tutto scorre: qui si respira una specie di eternità immobile che preme sulle spalle e si adagia sul cuore».

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