Controcultura

Il viaggio di de Chirico dal metafisico al classico

Dopo i contributi al movimento surrealista, il pittore tornò al realismo. Rendendolo "magico"

Il viaggio di de Chirico dal metafisico al classico

Ho sempre ammirato Giorgio de Chirico anche quando non era ammirevole, anche quando era irriso, dimenticato, compatito. Eravamo sul finire degli anni Settanta, e il pittore dava segni di sé come personaggio comico e paradossale. La sua stessa fisionomia era pittoresca e caricaturale. Nelle interviste, dove concorreva con Ungaretti, richiamava personalità come Ionesco o Hitchcock, nella ingombrante fisicità. Un vecchio nonno burbero per le avanguardie che si misuravano con lui, come con Salvador Dalí. Penso a Andy Warhol, o a Gino De Dominicis che appare con il grande vecchio in primo piano in una fotografia di Claudio Abate del 1973. L'artista d'avanguardia sembra irridere il grande pittore imbronciato nella sua inconfondibile sagoma. Così l'ho visto anch'io nel 1975 a Venezia camminare solenne e silenzioso in piazza San Marco.

De Chirico si riteneva l'ultimo pittore. Letteralmente. In quegli anni poteva rispondere in questi termini a maliziosi interrogatori: «Chi sono, secondo lei maestro, i validi pittori viventi?». «Nessuno, all'infuori di me». «E, tra i morti, chi considera di più?». «Nessuno. Cioè posso accettare con riserva Tiziano e Raffaello e, senz'altro, Courbet». De Chirico non si misura con la storia, ma con l'eternità, con il Mito, che egli dissacra. De Chirico resta unico, capace di produrre divertimento, senza mai uscire dai confini della storia dell'arte. Ugo Facco de Lagarda, il 22 settembre del 1964, nella rubrica «Aria di Venezia», scrisse: «Evviva gli enfants terribles della cultura e dell'arte. Siamo stanchi di colli torti, di finti modesti, di umilissimi dal dente avvelenato, dei versipelle, e dei pedissequi attenti a ogni mutar del vento, all'effimera moda e agli intoccabili numi del giorno... In strenuo, eterno conflitto, con la Grande Esposizione dei Giardini (per cui, anche in questi giorni, De Chirico ha, senza affatto sorridere, proposto di abbatterla e sostituirla con un allegro Luna Park), alcuni anni or sono finì con l'allestire, valendosi di Giorgio Zamberlan, una memorabile Antibiennale», contro qualunque conato di arte povera o concettuale, che in quegli anni mostrava i suoi diversi e vacui volti.

Alla fine degli anni '60, dopo una lunga stagione neobarocca, de Chirico ha uno scatto di fantasia creativa superando la ripetizione dei soggetti maturati nel primo tempo metafisico che era stato efficacemente illustrato sulla rivista Lacerba il 14 luglio 1914 da Ardengo Soffici: «La pittura di De Chirico non è pittura, nel senso che si dà oggi a questa parola. Si potrebbe definire una scrittura di sogni. Per mezzo di fughe quasi infinite d'archi e di facciate, di grandi linee dirette; di masse immani di colori semplici, di chiari e di scuri quasi funerei, egli arriva ad esprimere, infatti, quel senso di vastità, di solitudine, d'immobilità, di stasi che producono talvolta alcuni spettacoli riflessi allo stato di ricordo nella nostra anima quasi addormentata...».

De Chirico si risveglia da un lungo letargo, e riprende a sognare. Sono, finalmente, altri sogni, non ripetizioni di sogni già sognati. E hanno una freschezza nuova. Anche de Chirico ha il suo '68. Intanto, mutati dal 1915, ritornano i manichini che, al culmine della sua corsa, nel 1942, travolta la prima metafisica nel nuovo gusto barocco, aveva commemorato così: «Il manichino non è una finzione, è una realtà, anzi una realtà triste e mostruosa. Noi spariremo, ma il manichino resta».

Possiamo dire che la prima metafisica si chiuda con la dispettosa e crudele stroncatura di Roberto Longhi indirizzata proprio a irridere i manichini come negazione di una umanità vera: «Spinta dalla sua mano di macchinista crudele, l'umanità orrendamente mutila e inesorabilmente manichina, attrezzata alla meglio sé medesima come un melanconico cul-de-jatte appare fra grandi stridori e cigolamenti sui vasti palcoscenici deserti, guardati a vista dai pesanti scatoloni dei casamenti pieni di caldo e di bujo. Ivi l'homo orthopedicus sgrana con voce di carrucola una sua parte impossibile alle statue diseredate della Grecia antica. Sotto il torbido smeraldo del cielo, che la pretende a Mediterraneo, i miti ellenici decapitati presentano credenziali alle statue di Cavour; le civiltà si riecheggiano; le ciminiere delle officine si allineano ai masti medievali, mentre Pirelli e Borso d'Este s'intendono al primo sguardo del loro unico occhio artificiale».

Di lì parte, come uscendo dall'isolamento della propria meditazione, il dialogo con «Valori plastici». Tra il 1918 e il 1919 si ricordano anche le prime mostre italiane, una collettiva nella galleria «L'Epoca» a Roma, nel maggio del 1918; un'altra nel febbraio 1919 presso la galleria di Anton Giulio Bragaglia. Qui de Chirico espose opere del periodo ferrarese, presentandole con lo scritto Noi metafisici. A partire dal 1920 si esibisce nella serie straordinaria degli autoritratti. Dalla metafisica alla cronaca quotidiana. De Chirico tornerà su questo tema, arricchendolo di nuove prospettive, l'autoanalisi allo specchio, la presenza di statue e ombre che indicano lo sdoppiamento della personalità, i «doppi ritratti» realizzati inserendo nella composizione altri volti (della madre, del fratello, ecc.); ed è costante la volontà di esaltare la propria immagine fino a trasformarla in mito. In questo periodo iniziò a parlare di «ritorno al mestiere». E mentre recuperava la tecnica «antica» della tempera, eseguì nei musei alcune copie di capolavori della pittura italiana: il Gentiluomo con San Giorgio di Lorenzo Lotto (Roma, Galleria Borghese), il Tondo Doni di Michelangelo agli Uffizi, La gravida e La muta di Raffaello.

Nel marzo 1922 Paul Guillaume espose a Parigi una vasta scelta di opere di de Chirico. L'ultima mostra comune del gruppo di «Valori Plastici» fu nello stesso anno nell'ambito della «Fiorentina Primaverile». Infine, nel 1924, de Chirico espose, per la prima volta, alla Biennale di Venezia. Il suo contributo alla nascita del «realismo magico» è dimostrato, oltre che dall'attenzione della critica tedesca, dall'amicizia con Massimo Bontempelli, suo corrispondente in ambito letterario. Ma questa corrente non fu la sola a discendere dalle invenzioni di de Chirico: siamo infatti nel tempo di formazione del Surrealismo e l'attenzione dei suoi fondatori per lui è documentata da precisi episodi: gli scritti euforici di André Breton su Littérature, l'apprezzamento di Max Ernst, René Magritte, Yves Tanguy, Raymond Crevel. Nel 1923 Paul Éluard, con la moglie Gala, arrivò da Parigi a Roma per acquistare dipinti di de Chirico alla II Biennale romana. Quando, alla fine del 1924, uscì il primo numero de La Révolution surrealiste, de Chirico contribuì con un Rêve, e da quel momento, anche dopo la rottura con il gruppo, nel 1926, tutte le invenzioni del movimento surrealista avranno la sua impronta originale. Dal 1926, con l'adesione al «Novecento italiano», si moltiplicarono le mostre: a Milano (1926), a Zurigo e in Olanda (1927), in Inghilterra (Brighton, 1926; Londra, 1928), negli Stati Uniti (New York, 1926 e 1928) e ancora a Parigi (1926).

Il repertorio di de Chirico appare arricchito di nuovi temi: cavalli sulla riva del mare, trofei e personaggi mitici, mobili ambientati in aperti paesaggi e, viceversa, paesaggi chiusi in piccole stanze; infine, i primi quadri con i gladiatori. Waldemar George (1928) scrive, in contrasto con i surrealisti: «Il mistero si trasforma, prende un aspetto nuovo e sembra chiarirsi. Lascia forse il campo libero alla fredda ragione? No. Questo contatto con il mondo non ha fatto altro che renderlo più impenetrabile». L'impegno di de Chirico si dipanò anche in altri campi: il romanzo Hebdomeros, capolavoro della letteratura surrealista, esce nel 1929. Tra i capolavori dell'illustrazione di quegli anni vanno ricordate le tavole per i Calligrammes di Guillaume Apollinaire (1930). Preziose anche le collaborazioni teatrali (scene e costumi per Le Bal, per i Balletti russi di Sergei Diaghilev con la coreografia di George Balanchine, a Montecarlo, Parigi, Londra e Berlino, 1930). Cresce la polemica con i surrealisti che nel 1928 pubblicarono opere di de Chirico con titoli apocrifi, suscitando lo sdegno dell'artista.

All'inizio degli anni '30 incontrò Isabella Far, che sposò a Firenze durante la guerra e fu la sua compagna per il resto della vita. È del 1932 il dipinto dove essa appare nuda come una Venere classica nella quale con straordinaria purezza de Chirico armonizza Tiziano e Renoir. L'opera sbaraglia le avanguardie contro ogni intellettualismo, sciogliendo ogni enigma della bella pittura come per risarcimento di una tradizione dimenticata.

È l'inizio, fuori dal surrealismo, del realismo magico, dello stesso Novecento che si era orientato verso la visione drammatica di Sironi e l'approfondimento psicoanalitico di Malerba, di un nuovo e intatto classicismo che de Chirico perseguirà fino al delirio, contaminando, anche in forza di citazioni compiaciute e narcisistiche, la purezza del ritratto della moglie.

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