Tra gli artisti contemporanei, ce ne sono alcuni straordinari per qualità, per capacità tecnica, per grande evidenza visiva, anche se mentale o «concettuale», fautori di un realismo basato sul pensiero, su un pensiero astratto che porta all'immagine, come la sensazione di un altrove: non quindi un realismo meccanico, illustrativo, mimetico, bensì un realismo essenziale. Tra questi artisti, attivi negli anni Sessanta e Settanta, artisti per lungo tempo emarginati e che hanno tenacemente, ostinatamente continuato a dipingere anche nell'assoluta indifferenza della critica, spicca Carlo Guarienti (Sant'Antonio di Treviso, 28 ottobre 1923).
Guarienti è un pittore difficile, tentato da mille stimoli, leonardesco, che esordisce, realista inquieto, nel 1949, nel gruppo «I pittori della realtà», con Gregorio Sciltian, Pietro Annigoni, Pietro Antonio e Xavier Bueno, Giovanni Acci, Alfredo Serri. Il suo momento più riconoscibile e originale è negli anni Settanta e Ottanta, quando diventa pittore di geometrie mentali, come nel De divina proportione di Luca Pacioli, il cubo, la sfera, la piramide, ma sempre con riferimento a una realtà sensibile, perfino un sogno che non è mai indistinto, confuso con elementi di invenzione (anche mostri, nel buio della ragione), che contraddicano l'esperienza concettuale. La pittura di Guarienti è pittura di pensiero. Leonardo affermava: «La pittura è cosa mentale». Nella sua vicenda umana è intervenuta una tragedia, la morte di una figlia, e la sua opera, che soprattutto nella fase surrealista era stata articolata con figurazioni magiche e fantasie, a popolare spazi rigorosi, neorinascimentali, con un richiamo costante alla grande tradizione pittorica italiana, improvvisamente si disanima. Non vi appaiono più figure, esseri umani, bensì solidi geometrici, linee, numeri, segnali stradali, con un richiamo alla Pop Art, a Jaspers Johns e a Jim Dine, e quindi alla contemporaneità più riconoscibile, che sembra entrare in questi spazi algidi. Insomma un gelo, una freddezza, una lucidità, un distacco, che sono il segnale di un dolore che non si può riparare.
Nelle opere successive, si vede come rinascere una sensazione di vitalità, un alito, che libera l'immaginazione di Guarienti da quest'ossessione geometrica, da questa freddezza; piccole vedute di Roma in una luce gelata, notturna, con una ignota dolcezza: richiami a un'immagine visibile, sensibile, della città, che fanno pensare a una ripresa di vita. Così, nelle sue tarde opere, spesso autoritratti, come fantasmi, sembra che una polvere o un velo scenda sulle cose: nature morte, oggetti, solidi geometrici, e infine sulla riapparizione improvvisa dell'essere umano, lui stesso nudo, novello Giobbe o San Gerolamo penitente. Ossessivamente il pittore si ritrae decomposto, come fosse diventato terra, in una pittura rugginosa, con una superficie che impasta il colore, in una notte senza fine, senza possibilità di penetrazione per lo sguardo. È come se il suo modo di vedere il mondo fosse filtrato da una condizione di totale annichilimento, in cui però c'è una luce essenziale, come una intuizione dell'aldilà, il pensiero di una essenza metafisica (come già fossimo dall'altra parte della vita), che è più forte della realtà e che informa di sé la realtà.
Nelle opere di Guarienti troviamo quello che la pittura metafisica aveva voluto rappresentare, fin dalle proprie origini, con la intuizione di De Chirico: una dimensione essenziale, totalmente purificata, di puro pensiero, che viene a distillare e quindi a distanziare l'emotività. Pittura puramente mentale. Così nelle ultime visionarie ed essenziali ricerche, anche nella storia e nella rivisitazione della sua opera, con riflessioni materiali e formali, il procedimento è tanto sofisticato intellettualmente quanto tecnicamente. La pittura va oltre qualunque materia e la trasfigura in pura idea. Colore, disegno, fotografia, ruggine, resina, scrittura. Carlo Guarienti sfida il suo stampatore. Egli ha un duplice obiettivo: creare una immagine evanescente, che presuma essere l'equivalente dei versi di un poeta, in questo caso, dopo Ungaretti, Roberto Capuzzo: «Ombre nella stanza accanto/ Dietro la porta socchiusa/ La luce del crepuscolo/ Ha lasciato intravedere/ La mano»; e pretendere che lo stampatore d'arte Valter Rossi ci dia l'illusione del foglio originale che nasce riciclato, rielaborato da immagini precedenti, da il se stesso che il pittore è stato.
Guarienti ne è programmaticamente e tenacemente consapevole, tanto da chiamare il suo assiduo lavoro «sparire... apparire». Intanto Capuzzo lo ripete, lievemente, con un sussurro: «Scritte a matita/ Con mano ferma/ Alcune di quelle parole/ Scompaiono se vengono lette./ Altre perdono forza./ Dissolvono lentamente./ Poche restano». Il testo poetico si fa critico. Sulla carta appare l'ombra, il fantasma dell'artista, come in filigrana, poi la mano impressa sui fogli già usati; «Abbiamo scritto spesso parole/ senza nominarle./ Nessuna in quelle occasioni/ Venne più scritta./ Segni a matita in luce radente». Conseguentemente procede Guarienti, con mano leggera: sparire... apparire.
Il suo intervento indica che il tempo è più forte di noi; e che ci sfida a resistere, così come le parole scritte su quei fogli, che hanno perso significato, e che ci ricordano altre mani che non ci sono più. Anche le sue stesse, del Guarienti che è stato, dell'uomo che è stato. Che, mentre si perde, si ritrova. E che ora è altro da sé. Il fantasma di sé.
Dove è quel Guarienti che, nel 1946, misurandosi con Mantegna e con Carpaccio, dipinse il San Gerolamo? Fu l'ultimo quadro del Quattrocento, l'equivalente di una pagina di Finzioni (1944) di Borges. Come avrebbe firmato Carpaccio: Guarienti FINXIT. E ancora finge. Lasciandoci sulla carta la sua anima. Mani che non ci sono più.
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